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Non appendere mai i pensieri all'attaccapanni

Ho appeso un pensiero ad un attaccapanni e l’ho dimenticato. E’ rimasto appeso al gancio per quarant’anni, forse di più.
E dire che ci sono passato davanti almeno tre volte al giorno. Se non quattro, o cinque. Tutti i giorni per tutto questo tempo.
Cinquantottomilaquattrocento volte, come minimo. Non mi sono mai accorto che lo avevo lasciato lì. Ovvio, che ti dicono che sei distratto. E, a pensarci bene, cosa sono le distrazioni? Si dimenticano davvero le cose, oppure facciamo finta di averle perse?
 
E poi, di colpo, l’ho rivisto.
 
«Ecco dove lo avevo messo», mi sono detto.
 
Era lì. Semplice. Come bere un bicchiere d’acqua, come fare uno più uno. Che non fa sempre due, ma questo è un altro discorso. Solo che non mi ricordavo perché mai avessi pensato di appenderlo. Ora, se c’è una cosa che mi manda in bestia, è dimenticare il perché di un fatto, di un gesto.
 
Di un pensiero appeso all’attaccapanni, appunto. Perché lo avevo appeso? E, soprattutto, perché avevo pensato di appendere un pensiero? Per riprenderlo in un secondo momento, forse. O per dimenticarlo. Ma se avessi voluto dimenticarlo, non lo avrei messo li, in bella vista. No. Lo avrei gettato nella pattumiera. Che è piena di pensieri gettati via. Ne butto via a decine, a centinaia. A migliaia. Che non riesci nemmeno a metterli nel bidone giusto: organico, vetro, carta. A volte ho pensieri di carta, altre di vetro. Organici mai, mi fanno schifo, si arrotolano, ti sbavano addosso, ti baciano. Talvolta sono misti. Non importa, tanto non li riciclano mai i pensieri, non servono a nulla. Se non a pensare.
 
Non che servano a molto, i pensieri. In generale, intendo. Figuriamoci quelli gettati. Ma quelli appesi? E’ come ritrovarsi, dopo quarant’anni un qualcosa di incompiuto. Dentro e fuori.
Va beh, chi se ne frega. Adesso lo prendo e lo butto via, insieme agli altri. Se non è servito a nulla, in tutto questo tempo, cosa vuoi che serva ora? A niente, appunto. Quindi lo butto e non ci penso più. Con tutte le cose che ho da fare, preoccuparsi di un pensiero ultradecennale, mi pare una sciocchezza, uno spreco inutile di energie.
 
«Maledizione!», esclamai di colpo.  
 
Non che abbia l’abitudine a parlare da solo ad alta voce, ma il pensiero di un pensiero appeso, mi ha fatto pensare. E se quel pensiero fosse il Pensiero? Quello maiuscolo, quello che ti fa vedere, capire, che dà un senso a tutta l’esistenza. No, impossibile. Non lo avrei appeso. Lo avrei conservato con cura, messo da parte, protetto. Chiuso in cassaforte, con tutti i ladri di pensieri altrui che ci sono in giro, non si sa mai.
 
Dovevo leggere quel pensiero, a tutti i costi. Ma come si fa a rileggere un pensiero lasciato appeso, se non ci si ricorda più cosa si aveva pensato, e soprattutto, non ci si ricorda del perché uno lo aveva appeso? Mica sono come i libri, i pensieri. Che uno li prende, li sfoglia, li legge, sottolinea qualche parola, poi li lascia lì. E quando li riapre si trova allo stesso punto in cui li aveva lasciati. Basta continuare a leggere, ed il gioco è fatto.
 
I pensieri no. Ogni pensiero nasce da un pensiero precedente, e poi ne segue un altro, e così via, ma se si perde il filo, è finita. Inutile, bisogna buttarli. Non appenderli, maledizione! Se uno li appende, vuol dire che li lascia li, sospesi. E quelli lavorano, lavorano, lavorano…
 
In silenzio, di notte, quando mangi, quando parli, quando fai l’amore. Uno non se ne accorge, e poi di colpo: ZAC! Ti esplodono in testa. E questo invece, è stato li appeso per quasi mezzo secolo. Senza dare segno di se. Non è normale.
 
«Devo assolutamente leggerlo» mi ripetevo ad alta voce. Ora il problema era: come? Aprirlo con un cacciavite. No, impossibile. Non hanno consistenza, i pensieri. Come l’anima. Ammesso che ci sia, un’anima. Un’anima non si sa. Ma i pensieri si. E questo qui lo tengo in mano, dopo averlo preso dal gancio. Lo vedo. Lucido, quasi trasparente, piccolo. Luminoso, ma non eccessivamente, ecco. Come una lucciola, che al sole non si vede, ma di notte… solo che io di notte non ci passo mai davanti a quell’attaccapanni. Lo avrei visto prima. E mi sarei ricordato di aver pensato di appendere un pensiero. Ed avrei ricordato. Il pensiero, appunto.
 
«Ricordare!!!!!» e lo dissi con la voce tremante. Ecco la soluzione. Pensare al mio ultimo pensiero, poi a quello precedente, poi a quello prima ancora. Risalire indietro nei pensieri, sino a ritrovare quello dopo quello appeso. E tutto sarebbe andato a posto. Non si può vivere con un pensiero appeso, impossibile.
 
Un pensiero appeso ti può uccidere, può esplodere in ogni momento. E occorre andarci cauti, i pensieri ti cambiano la vita. Figuriamoci quelli appesi. Allora, con calma. Prima di vedere il pensiero appeso, ho pensato che avrei dovuto comprare le sigarette, e subito prima ho pensato a dove cavolo erano finite le sigarette…e poi prima ancora che avevo finito le sigarette…no, non è così. Prima avevo pensato a dove erano finite, poi che le avevo terminate, e poi che le dovevo comprare. Si, ecco, così. Allora, e prima? Prima…
 
«Dio santo! Non riesco a ricordare cosa avevo pensato» e sentivo il sudore sulla mia fronte, le mani iniziavano a tremare. E poi, a pensarci bene... Ricordare era comunque pensare, ed allora non avrei mai potuto tornare indietro, perché ogni pensiero ricordato era un pensiero che si aggiungeva alla catena dei pensieri. Sarei sempre rimasto al punto di partenza. Non si può tornare indietro. E poi bastava uno sbaglio, un’inezia. Confondere un pensiero con un altro. Un refuso nel flusso e mi sarei perso. Avrei generato pensieri mai avuti. Avrei pensato altre cose. Sarei stato un altro, ecco, un altro….
 
Cominciai a guardare il pensiero appeso che tenevo nella mano. Un piccolo, insignificante pensiero lasciato li. Mai buttato. Lasciato. Sarei stato ancora io dopo averlo ricordato, oppure avrebbe scombinato tutto di me, dal di dentro? Chi ero io?
 
Non si può vivere senza un pensiero. O meglio, con un pensiero appeso all’attaccapanni. Devo leggerlo, ricordarlo. Devo…devo….devo….devo…..
 
 
Il dottore uscì dalla stanza, con la cartella clinica in mano. Il paziente era li, seduto, come tutti i giorni, con i palmi delle mani  uniti a coppa, come quando si beve da una fontana, e guardava dentro le mani e ripeteva, monotono, la stessa frase, da anni: «Devo leggerlo, devo leggerlo…»
«Mi dica, c’è qualche miglioramento?» le chiese l’infermiera, prima di andare dentro a somministrare la terapia al paziente.
«No, niente. Come al solito. Fissa le mani e dice che deve leggerlo. Ma non sappiamo cosa, e soprattutto perché»
 
E alzando le spalle andò verso il suo studio. Fuori era una bella giornata, di sole.
 
 
 
 

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