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Nessuno

Siamo stati dei nessuno, tutti quanti, che hanno attraversato la vita nella disperata illusione di ingannare l’anonimato, batterlo, uscire vittoriosi dalla partita solipsistica del dis-piacere della vita, dall’angoscia solitaria, eremitica, desertica dell’ineluttabile dolore della vita, della sua incomunicabilità.

Tutti noi siamo, eravamo e saremo soltanto questa icona irreparabile della frattura tra la santità del sentire e il grave insostenibile e incomunicabile delle carni.

Siamo anonimi per definizione, abbiamo imposto i nomi alle cose proprio per competere con l’innominabilità del creato. Altro che, il verbo non è Dio, né viceversa. Anche la fame divorante del successo si inscrive nello stesso dramma: quelli che vogliono apparire sono come annegati nell’oceano del Senzanome e sperano, o dis-perano, che il successo li tragga in salvo, loro innominati, dalla marea mortale dell’anonimato. Senza accorgersi che purtroppo così facendo non diventano altro che quello che erano già, che la fama non è un nome più aureolato, più trascendentale, più cogente di quello di cui già dispongono e che, nella sua inadeguatezza, li pungola a cercarne un altro... Non c’è altro che il nome a confortare quella illusione di essere qualcosa che ci ostiniamo a incensare contro ogni evidenza. Siamo il cieco Nessuno che cerca il proprio nome e siccome non lo vede, o non vede che era già lì, comincia a fantasticare sul proprio illusorio lignaggio.

Quei pochi di noi che hanno cercato e conseguito il cosiddetto successo, dico quelli proprio dei miei tempo e generazione- cos’è stato in fondo quel poco-successo di cui han goduto e magari godono ancora? Soldi, in fondo, soltanto soldi- nessun riscontro di nessuno stampo ontologico, niente. Solo un pacchetto di denari che serbano in sé la maledizione del dio-danaro. Quella del suo connaturato illecito, per cui lascia sempre immaginare qualcosa di tortuoso, di lubrico cui sia correlato, la corruzione, il clientelismo, il servilismo, la prostituzione... e anche il successo stesso è avvelenato dalla sua stessa aureola. Che cangia in supplizio ciò che concede come apoteosi.  

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