Scritto da © Hjeronimus - Sab, 03/03/2012 - 09:51
“Di noi che resta?
Questa domanda, nella sua rozza semplicità, lascia tuttavia irreperibile e inevasa la risposta, come quando i bambini chiedono: - Mamma, perché c’è il sole? –, e la mamma né sa né può spiegarglielo.
Già, perché c’è il sole? Perché c’è l’uomo, il destino? Quesiti improponibili, da cui il pensatore sistematico, nella impossibilità di soddisfarli, e proprio per sottrarsi alla presunta banalità dell’interrogativo, cercherebbe scampo deviando dal sostantivo (sole, uomo, destino) al predicato: c’è. Facendolo suonare così: perché c’è? E traducendo poi la nostra espressione in un : cosa è che resta di noi? E contraendone finalmente l’unità significante in una sintesi ulteriore: cosa è?
Così, sapessi cosa è conoscerei anche l’altro: cosa resta… e chissà che non ne sarei rincuorato, che non ne caverei un rilassamento, un ‘dissentimento’ dei sensi (come dice Leopardi), invece della dolorosa contrazione del loro risentirsi alle implacabili sollecitazioni della carne…
La carne, l’incarnazione, la mia carne. Anni fa, nel duomo gotico di Lipsia, sotto i miei piedi riposavano per sempre le ossa di Johann Sebastian Bach, mentre dal coro una sua cantata dilagava tra le spire scarlatte delle costole ogivali della volta. Al suono di quel divino corale, avvertii il pensiero mitico affluirmi in seno. Sentii di non potermi sottrarre al Bach leggendario delle agiografie, di modo che per un fulgido attimo mi tramutai in credente. In credente di Bach, quinto evangelista…
Ma se adesso riattraverso lucidamente quell’atomo di spazio-tempo, ecco, che ne è, che resta di Johann Sebastian Bach, dell’immenso artefice del più alto tempio sonoro di ogni tempo?
Ecco, cosa è? Cosa resta?. Niente. Si dirà. Già, ma se è niente, allora la risposta è incompleta, è inesatta. Perché il niente implica la fine del tempo, e se il tempo non c’è, c’è l’infinito. E il niente implica un aldiquà, il quale finirebbe di per sé per qualificare anche un aldilà, senza scampo. Eppure torno a pormi esistenzialmente la stessa, terribile domanda: che sarà, che resterà di me?… Se neanche di Bach, del grande Bach niente è più?… Ma se non so cosa è, come posso dire: non è più?… L’essere non può essere e non essere, o è, o non è- è lapalissiano, è parmenideo …
E che Bach sia, è assolutamente e infinitamente più sicuro che io sia: è certo. La morte non è una livella: Bach sarà sempre più di quanto io mai sia stato o mai sarò… no, non posso permettermi di parlare di Bach, della sua celestiale e inarrivabile vetta, pure mutata in niente dal gioco irreversibile, calmo, crudele di madre-natura. Cui nessun astro può sottrarsi, figuriamoci un opaco alcunché senza alcuno splendore, quale io mi sono… Eppure, ecco, non posso far altro che parlare di me, di questo buio nulla destinato al nulla che pure incarno, qui, ora, io, disperatamente vivo ma assolutamente sguarnito di chance per questo resto di vita che mi resta… e di che vita mai sto parlando?… Che ne è stato di una vita legittima e ineccepibile, come ogni altra, come quella di Bach, e che ora invece digrada lenta e inesorabile nella nullità…? Io ho conosciuto il nulla ancor prima di precipitarvi dentro. La mia intiera vita sprecata è stata nient’altro che una “mossa”, una finta per far credere che ci fossi davvero, anche a me stesso. Uno scarto, neanche elegante, per ingannarla, la vita, non per interpretarla davvero, per tuffarcisi dentro, come in una rutilante piscina per nuotatori felici… che felicità, ahimè, dove, quando…?… Ho fatto quello che non volevo, ho avuto la ricompensa che non avevo mai cercato, sono montato sul podio della vita disprezzando il “gran premio” che mi ci aveva condotto. Non li volevo i premi, ma ho avuto una casa, una moglie, un erede… Prima avrei voluto nascondermi, portarmi via dal mondo, lontano, solingo, dimenticato… e poi ho dimenticato anche questo, ho dimenticato di farmi dimenticare…
Ora invece questa dimenticanza che mi soffia contro come per divorarmi, mi fa paura… e la paura risputa fuori tutti i rospi della mia vita sbagliata, facendomi sanguinar fuori un rimorso inestinguibile, che non so come tamponare, come ammansire. Com’è che dovevo vivere, che dovevo fare per essere anch’io un po’ Johann Sebastian Bach?… Anche se pure questo è un niente, anche se sulle sue stesse ossa dovetti ammettere il nulla in cui esse s’erano convertite… No, niente, niente…
Invece di fare Bach ho fatto l’impiegato; invece di ideare creazioni sublimi ho sposato una deficiente, una che pensava solo alle pulizie e allo “shopping” e che adesso è anche morta; invece di curare il mio spirito ho curato la casa, l’impiego, l’automobile; invece di affrontare l’enigma che mi aveva generato, ho generato un altro enigma, che prima frignava e dopo s’infilava in una dispendiosa escalation che mi strinse sempre di più in un mutilante e infinito moto perpetuo di produzione e dissipazione- il che soffocò infine in me ogni smania spirituale, per così dire, ossia ogni istanza di vita da dedicare alla mia essenza… Già, ma quale essenza?… No, non sono Bach, la mia unica “essenza” me la regalò mia moglie: a me che detesto persino lo “after shave”…
Vabbéh, lasciamo perdere. Torno alla domanda. Cosa è? Cosa resta?
Per esempio di Bach: cosa resta, che ne è della sua anima? Certo, ci resta la sua musica, le sue cantate grandiose, sublimi. Ma lui dov’e?… Si dirà: dentro. Dentro la sua musica. E a ben guardare, a ben ascoltare ritroveremo i suoi gusti, ciò che gli piaceva di più, le sue predilezioni, di modo che rievocheremo dei sentimenti che necessariamente erano provati, sentiti, vissuti nella profondità della sua anima, del suo esistere: ossia, noi proveremo i suoi sentimenti, come se ci rivivesse dentro, noi li sentiremo ancora, come fossero i suoi, noi, non già lui… riproveremo l’amore che lui ci aveva plasmato, l’amore, già, questo palpito felpato che si flette in cielo sulle sue ali ectoplasmiche… È questo il fantasma che vorremmo? È questo lo spettro dell’anima di Bach, questo amore sprigionato dalla sua musica, che ci penetra nell’orecchio permeandoci di splendore?… Questo convitato di pietra che ci invita nelle tenebre, noi peccatori?… No… no… è miseria anche questo e una fame di vento… Noi, peccatori di che, poi? Neanche questo… neanche questo… non ci siamo nemmeno riusciti, non ce l’abbiamo fatta a peccare davvero. Non siamo Bach e lui non è niente e noi non siamo neanche peccatori… niente siamo, proprio come lui adesso. Con in più l’aggravante di non essere stati neanche Bach, neanche niente. E se la sua anima è oramai niente, salvo forse un rumore chiaro, strano, perspicuo, celeste, il nostro peccato è proprio tutto qui: neanche questo… ossia, neanche questo rumore…
Così io, niente che sono, io che non ho vissuto e non ho fatto rumore, di nessun genere, lascio solo questo, questo scritto, questa memoria, affinché sia almeno detto, almeno scritto, che sono esistito. Nel mondo resta soltanto il mio erede, mio figlio, il quale eredita soltanto questo pezzo di carta: non ho altro da offrirgli, soltanto questo straccio di pensiero che, a breve, non sarà più niente. Lo si ritrovi e glielo si consegni. Non chiedo altro.
È ora di morire.”
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Dichiarazione dei pubblici ufficiali, in data 29.02.2012:
In data odierna, siamo penetrati nell’appartamento di Mxxx Chxxx, al dodicesimo piano di via xxx di Settimo…, su denuncia dei vicini, allarmati dal prolungato silenzio dall’interno e dal cattivo odore che ne proveniva. Il detto Mxxx Chxxx giaceva sul suo letto, in avanzato stato di decomposizione, deceduto, a giudicare dallo stesso, da circa mesi tre o quattro. L’appartamento era relativamente in ordine, salvo la presenza di medicinali sparsi qua e là. In tali circostanze è sul momento impossibile risalire alle cause della morte. Sulla mensola del comodino da letto è stata ritrovata la lettera allegata la cui grafia, a prima vista sembrerebbe coincidere con altri documenti rilevati in loco. L’uomo viveva solo. Non si segnala la presenza passata o recente di parenti o conoscenti.
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