Marek di Praga | Prosa e racconti | Hjeronimus | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Marek di Praga

Non aveva voluto andarci lì, e adesso non voleva restarci. Neanche se lo capacitava come c’era capitato.
Ma andiamo per ordine.
Marek era di Praga e aveva vissuto 20 anni a Parigi. Come poi fosse finito in quel “buco maleodorante” non se lo spiegava neanche: era lì e basta. Il “buco maleodorante” era Chiasso, cittadina confinaria del sud della Svizzera, anzi nemmeno questo: un corridoio, ecco, un transito ove i “passanti” dell’una o dell’altra parte non ci badavano neanche, né ci si fermavano mai. Un transito “turistico e commerciale”, come da segnaletica, affossato in una conca conchiusa tra colline, ove il biossido elargito da tutti quei “passanti” ristagnava, cagionandole quella definizione. Era il portale meridionale della Confederazione, una “entrata” che la grandeur un po’ parvenue,  una grandeur di soli soldi, senza la noblesse, aveva voluto magnificare con una specie di gigantesco zigozago tecnologico, un tunnel tutto vetro e acciaio,  che inghiottiva l’autostrada nelle sue viscere di fantascienza,  fingendosi riparo fonico della cittadina.
Da dentro quelle viscere, alla guida, Marek ne considerava la “dissonanza”, ossia la sgraziata iperbole techno di contro alla modesta e poco appariscente cittadina che intersecava. E lui, cittadino praghese che aveva vissuto a Parigi vent’anni, lo considerava una specie di scherzo malriuscito quel “ganglio” newyorchese trapiantato sul corpicino intossicato dell’assonnato, provinciale “corridoio” in cui lui pure appunto correva.
Già, ma correva dove?
Il “mostro”, l’idra di vetro inglobava entro di sé, oltre all’autostrada, una stradina laterale che correva lungo l’asse dell’intero abitato, scaricandone in parte la marea del traffico. Su questa guidava appunto Marek, ma non gli sembrava più di riconoscerla, perché ora vi appariva un bivio: un divieto a proseguire vi era stato posto sul davanti con l’obbligo di svoltare a destra in una carreggiata scoscesa che sembrava subentrare in un garage. Anche lì, vetro e fantascienza. Marek, fra sé, maledisse gli eterni “lavori” sulle strade elvetiche, giustificati a suo vedere soltanto da qualche assessore seduto sia in Comune che nel CDA della cosiddetta “lobby degli asfalti”, per cui “si ordinava” da sé lavori superflui e interminabili. Ma giunse infine effettivamente in un vasto garage, un po’ “all’americana”, e si trovò a pedinare quasi alla cieca verso un ascensore modernissimo. Dall’interno di questo, un tale, un giovane funzionario gli fa cenno di montare e di salire con lui. Si ritrovano di conseguenza in un grande e luminoso ambiente, arredato a ufficio.
Il tale si dà da fare intorno a scartoffie arruffate e mentre dice di preparare il dossier, Marek si volta verso sua moglie, seduta accanto: si era quasi dimenticato di lei. Rigira lo sguardo su quel tipo e l’osserva: un giovane moderno, vestito bene ma un po’ “sbarazzino”. Nel suo fare coglie alcunché di infido, di maligno, che pure è contraddetto dal suo stile tra il casual e l’impiegatizio.
Improvvisamente i pantaloni del giovane cadono giù. Marek si vota verso sua moglie, impassibile su una poltroncina, e poi sul giovane in mutande cui, per non inimicarselo, gli racconta che è colpa di quella dannata moda di portare la vita bassa dei pantaloni, e di non preoccuparsi che lo stesso è già accaduto anche a suo figlio. Ma il modo di ascoltare del giovane sa di beffardo e di malintenzionato, come avesse fatto apposta a lanciare quel segnale…
È troppo. Marek esce rapido. La moglie l’ha già preceduto: meglio così.
Scende un piano. Si ritrova in un enorme salone con un ricco bar su un lato e una vetrata gigantesca, da cui penetra luce soffusa, sul lato opposto.
Marek tornò col pensiero a quella grandeur cattiva che aveva prima ponderato, e gli parve che qui essa trovasse una magniloquente conferma. Non gli piaceva quel bar, sebbene camerieri in livrea bianca gli porgessero sorridenti dei bei bicchieri ricolmi. Osservò che le due enormi pareti laterali erano ricoperte di maioliche, il che lì per lì, lo gratificava, rimandandolo a Praga e allo Jugendstil. Ma vi si accostò meglio e si accorse che le scene rappresentate erano tolte dai cartoon’s della Disney …
Corse ancora più giù. Un altro vasto ambiente, pieno di gente indaffarata, gli si spalancò davanti, e lui osservò sorpreso l’enorme hall, anch’essa vetrata su un lato, in cui sguazzava tutta quell’umanità anonima e distaccata. Ancora una volta lo colse quel senso di sproporzione e di malagrazia nel considerare ciò che vedeva, accostato alla modesta immagine cittadina che conosceva. Ahimè, che spreco…
Non gliene importava più un fico secco e, a pensarci bene, neanche sapeva per qual motivo era stato attratto in quel grattacielo (che tale appariva dalle strutture e le proporzioni dell’interno). La moglie era oramai introvabile e decise così di togliersi di lì, da quell’atmosfera soffocante da un lato, e, come dire?, incomprensibile dall’altro. Scese quindi ancora nell’androne smisurato del garage e si lasciò guidare all’uscita da una luce sull’orizzonte bigio del beton. Alla sua auto non ci pensò neanche, cercava aria.
Ma si ritrovò nel tunnel “monster”, nell’idra di vetro, ove un sole spietato, penetrando a intermittenza fra le lastre rettangolari, produceva un singolare “effetto labirinto” che aveva qualcosa di stordente e di ancora più torrido dell’interno appena mollato. Marek si apprestò di buon passo a percorrerlo a piedi. In fondo non si trattava che di sette-ottocento metri, da che ricordava, e fra poco si tornava all’aria aperta, a respirare…
Ma in fondo al rettilineo non c’era traccia di uscite, anzi l’idra si contorceva in una strana torsione curvilinea per poi perdersi nel suo frastornante gioco di specchi. Per sovrapprezzo, l’asfalto sotto al sole rinforzato dall’occhio di vetro del tunnel, cominciava a fondersi, spargendo all’intorno un miasma nauseante che, là dentro, non poteva disperdersi. Marek percorse il tragitto per intero con in cuore, oramai, un certo senso d’inquietudine che iniziava a confonderlo. Un senso che trovò immediata riprova quando in fondo al percorso si ritrovò davanti allo stesso ascensore di prima…
Dentro c’è lo stesso giovane funzionario e gli fa lo stesso gesto d’invito ad entrare. Marek scappa sulle scale.
Non sa perché quel tale lo interpella, né perché ravvisi nella sua aria da marpione e da professionista insieme, qualcosa di falso che lo istiga al sospetto. Cerca di ricordarsi di qualcosa tipo contravvenzione o imposte non pagate, ma di niente si rammenta, mentre in quel caos avvista lontano la moglie. Sembra indaffarata e indifferente come tutti là dentro. Non ci prova neppure a farle un cenno. Si gira indietro: il tizio non lo ha seguito sulle scale, bene. Ma quel salone enorme, invaso da quel formicaio freddo, gli mette come dei brividi, e in più comincia a sentir fame. Sale ancora. Va al bar. I camerieri sorridenti gli porgono bicchieri e tramezzini. Tutto gratis. Sarebbe una sorpresa gradevole, ma lui si sente osservato e come “inseguito”… non sa dire come… i camerieri lo guardano, mentre cerca di confidarsi con loro, con aria di compatimento, di ironia e di quella universale indifferenza che trasuda da ogni centimetro quadrato del “palazzo”. 
Oramai comincia a montargli in gola un certo senso di panico. Marek si gira disperatamente da ogni parte, e da ogni parte avverte il fiato corto della persecuzione che sta subendo. In lontananza si fa largo il giovane funzionario e gli fa capire a gesti che ha bisogno di parlare con lui. Non v’è alcun indizio di minaccia nei suoi confronti, ma lui si precipita dalla parte opposta. Apre su un corridoio, bianco, lunghissimo, infinita candida fuga di porte e di gente. Inciampa in un capannello di scope, stracci e secchi per lavare, incrociando l’espressione di biasimo dell’addetto tutto in bianco, che lo squadra come un criminale. L’ennesima porta che spalanca dà su una scala esterna. Scende trafelato, senza sapere dove. È ancora nel garage, ritrova la sua auto. Mette le mani in tasca: le chiavi sono rimaste sul tavolo del funzionario. Vorrebbe piangere, ma invece corre. Corre di nuovo nel tunnel. L’odore d’asfalto liquefatto si è così ispessito che sembra di mangiarlo. I coni d’ombra e di luce, sotto l’intermittenza di vetro e acciai, divengono affannosi nel loro scambio d’umori e lui si vede come su una pellicola che si sta fermando. Allora corre più forte, come per uscire più forte di lì. Ma è inutile, perché non solo l’uscita non appare e forse non c’è, ma anche perché lui, poveretto, inciampa e “ammara” in una pozza di asfalto bollente che lo inzacchera completamente e gli entra in bocca… si risolleva affannosamente. Sente lo schifo in bocca di quel sapore pastoso e ripugnante, come di un qualche caldo verme d’olio che gli si sdilinquisca nelle viscere. Ne è tutto inzaccherato e corre alla cieca totale verso un’uscita qualsiasi. Ma quando si stropiccia gli occhi è ancora lì, davanti all’ascensore. Il cui gemello accanto, tutto vetrato, sta arrivando- con dentro le scarpe lucenti e i calzoni un po’ avvoltolati del funzionario…
Allora Marek comprese.
Non era per l’insonorizzazione, né per ordinare e snellire il traffico di quel buco di mondo, che il tunnel era stato concepito. No. L’unico vero scopo era quello che lui adesso sperimentava: immettere l’uomo in un circuito ineluttabile che lo traducesse senza scampo nell’unica e sola destinazione a lui riservata. Un destino rappresentato da quell’ufficio e da quel funzionario inesorabile che fatalmente lo avrebbe messo davanti alla sua colpevole responsabilità. E per fargliela pagare, mica per offrirgli tramezzini gratis…
Marek capì che c’era di mezzo qualcosa “all’ultimo sangue” e che quindi mai più, ahimè, mai più l’avrebbe fatta franca, mai più ne sarebbe uscito con tutte le sue penne… ma, per così dire, lui non era soltanto la Kappa finale del suo nome, e non si arrese. Si dette alla clandestinità, fondò un gruppo di resistenza e si acquattò oramai sporco e con una lunga barba in un qualche meandro del grattacielo “infinito”.
È così che me lo immagino ancora, con un elmetto sulla lunga capigliatura, un kalashnikov poggiato alle sue spalle e un binocolo in mano, mentre senza posa cerca di avvistare il giovane funzionario…

 
 
 
 

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