Scritto da © Marco valdo - Mer, 16/04/2014 - 15:22
Donna Giuveppa ha il cuore di pietra pomice, che si consuma nello struscio per le vie di Asuncion, quando lo sguardo magnetico di don Emarildo la spoglia e la riveste di bava, quattro volte al giorno, mattina e pomeriggio, gli riesce difficile il contegno al contatto dei suoi occhi, il rigido incedere e sommosso dalle telluriche scosse che hanno epicentro nell'ombelico, sussulta e ondula a fior di pelle, un secondo prima dello tsunami, resiste di ossa e tendini e si mantiene integra, qualche crepa di ocra sul volto. Ma donna Giuveppa è provata, come la prima Duna verde bottiglia dal concessionario, fatta dalla CEAT, messa alla berlina per lo spasso degli impavidi, ha i nervi lisi, come le corde del violino, dopo il trillo del diavolo che ha in corpo, non cede alla tentazione, procede di piccoli passi stretti, che tutto contengono, si serra le labbra di mastice, ringoia i mugolii e senza code negli occhi, transita, a passo d'uomo, preso in prestito da don Martinco, nonno per parte di padre, che il suo di padre cammina come una geisha sghemba, per via del malloppo che conserva tra le magre gambe, una mongolfiera sgonfia, ricordo amazzonico di malarie.
Don Emarildo attende, da sedici lunghi anni; donna Giuveppa aveva allora undici anni, era esplosa precoce un giorno di marzo, dalla sera al mattino, il cotone candido del vestito si era gonfiato di due coni puntuti al petto e il magro non era più così magro, don Emarildo scoperse allora il flusso indotto del sangue e il dolore del pistolotto carico, non si sa se per l'inatteso, non si sa se per l'imbarazzo, ma il tutto si somatizzò in un brufolo grosso come una nocciola nel mezzo della fronte, che esplose come lo sputo di un minatore sulla palina della fermata della corriera, non levò le gambe alla fuga, ma stette, rigido e vibrante come l'asta della sacra bandiera, che sventola esangue a resa. Donna Giuveppa che allora era la señorita Giuvepita, quel giorno passo quasi di corsa il corso, fece ricorso anche allo scialle, che le copriva le spalle, meno il petto da pettirosso, cinguettando una liturgia di “oh, madre mia, oh, madre mia” che non tornava all'udito, nel frastuono del mezzogiorno, volava a passo svelto da tia Ebrica, per farsi togliere il sortilegio che gli era spuntato nel corpo la mattina, non vide Marildiño rigido accanto alla palina, non vide invero, altro che la punta delle sue scarpette di vernice, ma senti una forza sconosciuta nei suoi pressi, che fece gonfiare vieppiù il sortilegio, accelerò nel timore di scoppiare a dirotto in qualche tipo di pianto o di divampare per autocombustione, poi scoprì l'arcano e l'olio di lino e così lenì il suo spavento, ma come in un contagio, passò il testimone a Marildito, che al suo ritorno era tempestato di bolle rosse ed altre più grandi di un giallo spento, ancora teso alla fermata, con un sorriso da pastorello alla grotta e il basco infilato nella cinta dei pantaloni, allora si che lo vide, camminando placida, con lo scialle sotto le ascelle, fu il primo e ultimo sguardo che gli donò, la palina prese a vibrare, terminale di scariche ormonali, si era retto, il futuro don Emarildo, stretta la mano alla palina, la curvò di dieci gradi, prima di placare il moto.
Venne anche per lui la coscienza e lo zolfo, ma non l'oblio di quel momento, consacrato nel meno sacro dei modi, per ventotto giorni fila, tre volte al giorno, al ventinovesimo non bastò un intero flacone di ferrochina Bisleri e due cartoni di uova montati a zabaglione a reggergli le gambe, franò nei corridoi della scuola Santa Clara de Los Calvos, nell'ora dell'intervallo, toccò al bidello Faustito indottrinarlo sui pesi e le misure, usi e abusi, salute e limite.
Miti consigli, sono questi i termini del contratto, il contratto è Marildiño e i termini sono quattro alla settimana, massimo cinque, mai a stomaco vuoto o pieno di farfalle, che languono dopo aver svolazzato nei pressi del desiderio, Giupiña, Giupiña, Giupiña, fa presto un mistero a diventare ossessione.
Marildiño non aveva parole per dire, non aveva progetti per fare, Marildiño era uno scavezzacolli, scavezzava i colli delle bottiglie, i colli alla stazione, il collo all'oca, trastullava l'adolescenza in attesa di mettere testa a partito, mantenuto da don Gusberto, patrigno da parte di vedova, Mama Matelda, che sebbene viaggiasse intorno ai quaranta, si tirava nel deretano la maggior parte delle smorfiose di Asuncion.
Marildiño era, fino a quel giorno fatale, uno splendido esemplare di arredo, sistemato fuori del bar Paraiso, lustrato dagli occhi delle cameriere, dopo, immediatamente dopo, un attrezzo malconcio, un sostegno per gli abiti, servì una intera stagione per ridarlo al decoro, tanto era rimasto di stucco “calma e gesso” si disse, tra se e se, ma non si dava retta, non si dava pace, non si dava ragione, si dava invece agli eccessi e agli accessi, di ira, di risa, di case chiuse, allontanandosi dall'amore santo di giuvepita, virtuosa del rosario e timorata di Dio, sdegnosa al corso, procedeva dritta come un fuso, palesando ostile indifferenza, ma torta come un profiterole nell'intimo, di pizzo e taffetà, come quello delle sciantose francesi dei libelli libertini, che trovò un giorno nelle stanze di Guastalva, la domestica creola e invero un po' peripatetica, disusa all'amore platonico
“Li prenda señorita, che non mordono”
Le disse Guastalva, quando la scoprì a sfogliarli, seduta nel bordo del letto, le gote mature di vergogne;lei non rispose, si diede un contegno e andò via con una smorfia di offesa in volto, i libelli sotto braccio e una pacca sul sedere della maliziosa creola. La notte, venne quella notte, quella notte che gli crebbe il diavolo in corpo, arrivo lenta, per via della tarda primavera, leggeva e dava un volto al peccato, un volto tremendo, butterato di bolle rosse e giallo spento, il volto di Marildiño, scosse, contrazioni, i titoli di coda di Febbre d'amore, la bruna aureola della creola, la palina divelta, scorrevano immagini e conseguenze, come il Rio negro in piena, strinse al ventre Tediño l'orsiño, che impertinente mise il duro del naso lì, dove dimorava il demone; venne quella notte e anche il mattino seguente, come un sogno ricordava il rosso della vergoña, il nero della notte, il giallo spento del demonio, non corse per il corso quel dì, si mise malata fra le coltri e il cotone, sgranando le preghiere del pentimento, battendosi il petto, che era malattia e cura.
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