Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine.
Guy Debord
Maicol era un ragazzino simpatico. E meno fortunato di quanto si ritenesse. La sua vita si dipanò tra un’infanzia difficile e una maturità tragica; tra una partenza gravata da un patriarcato dispotico che l’opprimeva per aver successo, e un arrivo all’inferno tra gli osanna e gli allori del successo. Una specie di marcia trionfale verso la rovina.
Maicol veniva dall’America profonda, dal sud ex-razzista. Laggiù il padre crebbe i propri figli tra la propria negritudine, vissuta presumibilmente come un muro, o un divieto, e il libero mondo degli affari senza fine, della ricchezza spropositata, esagerata, il mondo dei bianchi. E percepì, è chiaro, l’aroma, o il richiamo, dell’elisir che l’avrebbe condotto, lui e i suoi figli, fuori dal segmento negro: il successo. Così si diede da fare coi suoi ragazzi, inculcandoli, battendoli e spingendoli sulle scene sin da piccoli. Scene che Maicol, già a 5 anni, si trovò a dover calcare.
Crebbe così sulla scena, anzi, la scena si insinuò in lui così a fondo che ne divenne una seconda natura, tendente a sopravanzarlo. Lui restò il ragazzino simpatico di sempre, ma quando il successo lo battezzò, fu una specie di trasfigurazione ad incensarlo: Maicol cantava, danzava, recitava come se un piccolo demone dal didentro lo mordesse per indurvelo. Un’apoteosi universale accolse la sua performance, ove il suo bell’aspetto scattante di giovane nero di belle speranze si deformava in quello di un cadavere vivente, marcato dalla putrefazione. Una mutazione cinematografica da cui tuttavia lui, metà uomo e metà palcoscenico, non poteva uscire indenne.
L’apoteosi lo sommerse di una pioggia di denaro e col denaro un pungolo amaro iniziò a farglisi strada nella fantasticheria: riscattare l’infanzia, quella sua, negata, e quella universale, condannata alla impossibilità. Nessuna barriera più avrebbe ostacolato il mondo incantato dei bambini, niente sarebbe più sembrato impossibile per loro. Rese così possibile un’utopia diversa da quella di Tommaso Moro, un’utopia imprevista che non avrebbe trovato compassione presso la razza umana: un paese dei balocchi, irrazionale come una “impresa a perdere”, ove alla profusione di ricchezza corrispondeva soltanto un continuo deperimento della medesima. Così che a qualcuno venne in mente di metter mano a quel “pozzo di San Patrizio”, di allungarci una mano dentro, trascinandone l’ideatore in un abietto circolo ricattatorio. Il che non produsse alcun vantaggio per costoro, ma riuscì a spingere il destino di Maicol ancora più in fondo al suo rigetto della realtà, al suo impulso pressoché nietzschiano di trasvalutarla, di superarla, di surclassarla la realtà.
Iniziarono così le sue metamorfosi, il suo periplo straziante intorno all’arcipelago delle identità, un’isola che non c’è, con dentro il tesoro perduto di se stesso. Il successo, inseguito, obbligato, conculcato, era infine in suo pugno – ma sembrava che la strada andasse ancora oltre. Lui non era quello che era e il successo non era il successo. Mancava qualcosa, e Maicol sentiva dentro di sé il lento inesorabile bruciarsi di tale irreperibile essenza, come un sosia, dentro, fatto di gas e di fuoco. Uno spettro che, in luogo di consolidarsi, vaporava chissà dove insieme alla gloria, che sembrava non riguardarlo più. Lui era un tipo gentile, fragile, amabile e difatti amato: lo dicevano timido e chissà, magari c’era timidezza nel suo ritrarsi in un mondo onirico, fatto di sogni infantili, impossibili da avverarsi. Non possedeva le armi critiche per sottomettere al proprio dominio l’accadere: il suo american-dream sarebbe rimasto puro e innocente come quelli della sua infanzia, o si sarebbe infranto come la sua anima di vetro.
Il sogno americano era il cinema, ed egli concepì un film grandioso a corollario della leggenda con la quale voleva sostituire la vita reale, con quella sua dolorosa assenza, con una traslatazione, con una metamorfosi in cui l’essenza stessa del cinema sarebbe stata trasfigurata e il lato onirico avrebbe assunto le sembianze di quello positivo. Quello sarebbe stato il successo di una vita e di una esperienza trascendentale. Là si sarebbe visto davvero il sogno trasfigurare la negra fatica della vita.
Così Maicol cambiò razza. Da nero divenne bianco, e però, come i ciclopi che avevano voluto osare di sfidare gli dèi, ne pagò il fio, e da sano divenne malato. Lo spettacolo stravagante che fin lì aveva offerto al mondo, si convertì in uno spettacolo allarmante ove maschere stralunate apparivano sotto i riflettori in luogo della sua faccia, maschere innumerevoli e talora raccapriccianti, oltre il cui sorriso disperato si ravvisava quel pungolo doloroso che Maicol, nonostante tutto, non riusciva mai ad ammansire. Lui non sapeva cos’era, ma c’era ancora, fin da quando era stato battuto per dare spettacolo e fino a quando il suo spettacolo aveva trovato una gloria unanime e universale. Uscire dal ghetto nero, come suo padre aveva voluto, con l’aureola del successo della società dei bianchi, questo riscatto grandioso e pressoché impossibile al ragazzino simpatico di tanti anni fa, si tradusse in un’impresa titanica e surrealista insieme, che spinse Maicol sul confine del delirio e della violazione di madre-natura. E siccome questa, davanti a tanta arroganza, non perdona, gli succhiò via dal cuore i suoi palpiti. E Maicol morì...
La società dello spettacolo promette a coloro che vorranno impegnarsi a interpretare se stessi nel film della loro vita un frutto molto vagheggiato, che è il successo. Poi però non lo concede, e i “campioni” falliti appendono al chiodo i sogni e le scarpe per percorrerli, e se ne dimenticano. Quando per un caso inusitato, come per esempio l’apparenza del talento sul suo secco e sterile orizzonte, finisce per accordarlo e porta alcuno in auge dorata, ecco che ciò che concede non coincide con ciò che aveva promesso, e così il candidato, o la cavia, si getta nel gorgo delirante di una qualche contronatura destinata a finalmente avverare quella promessa mercé la trasgressione- e invece precipita nell’Orco, dove dimentica persino che c’era stata una promessa e spreme tutto il poco succo della vita rimastogli a tentare di placare la propria pena.
26.06.2009.
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