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L'essere è trascendentale, e anche la pappa di Toby

Diciamo: l’essere è trascendentale. Cosa abbiamo detto?
Ecco, abbiamo detto un sacco di cose che implicano un’infinità di varianti interpretative. Ognuna delle quali tende ad almeno avvicinarsi al traguardo della verità, se può darsi verità alla nostra condizione. E questa verità sottostà necessariamente all’individuo unico e irripetibile che siamo, e si tratta infine e sempre della verità di qualcuno che la esprime. La sua  verità: un concetto che è parte stessa dell’essere che la cerca. Nondimeno, il senso interno, aurorale di questa ricerca, conduce fatalmente il “chi” di chi la compie al “che cosa” universale e “gestaltico”, per così dire, del suo punto d’arrivo. Qualcosa di condiviso che abbatte infine almeno parte di tutte quelle varianti.
Per accedere all’interno della nostra domanda, è anzitutto necessario sfrondarla laicamente, poiché le due parole che la compongono sono ambedue gremite di allori retorici e metafisici che, oltre che gravarla di un rigoglio innecessario, la deviano dalla sua fondazione logica. Dunque, vogliamo l’essere dispogliato dalla teleologia, e il trascendente vuoto di teologia. In che modo?
Nel modo che l’essere è l’esserci; e il trascendentale, lungi dal configurare icone “aldilà”, carismatiche e assolutiste, è il linguaggio. 
L’essere è ciò che c’è, quello che è qui e ora. Il che non coincide con queste forbici, o quella montagna di fronte. Loro magari “ci sono” uguale, ma innominate e inessenziali. Come la ciotola con la pappa del cane: il fatto che si trovi lì pronta per venir ingurgitata da Toby, non vuol dire che essa è nell’essere. Né che, una volta ingurgitata da costui, essa non sia più la “pappa di Toby”. Resta la medesima, sia che si trovi nella sua ciotola, sia che sia di lì sparita, o non ancora apparsa. Dove sta la “pappa di Toby”, dove le forbici, la montagna? Ossia: dove si colloca il loro essere? Non potrebbe magari rinvenirsi in una “certa” unità di spazio e tempo in cui la coincidenza di un ente “interpretante” potesse loro conferire una certa sostanzialità cartesiana, per cui il loro essere comincia a diventare effettivo all’interno delle sue coordinate spazio-temporali? L’essere non è identico alle proiezioni ortogonali dell’essere? E queste, non dipendono da chi le proietta? E chi è che le proietta? E dove, e su cosa? Queste domande contengono comunque una risposta: l’esserci è il qualcuno che osserva l’essere. È l’essere che c’è e che giudica tale essere. In quanto tale, tale esserci dice “io”. È sempre io il centro delle proiezioni ortogonali di ciò che c’è: la “pappa di Toby” non sta nella sua ciotola, ma nella “proiezione d’essere” dell’interpretante che ci sta di fronte. O che viene prima della sua pappa, che la precede trascendentalmente.
In che modo? Nel modo del suo sapere. Egli sa che la “pappa di Toby” esiste anche quando non c’è, che esiste oltre e nonostante Toby stesso. Lo sa nell’unico canone trascendentale del sapere, quello del linguaggio. Se Toby vuole la pappa, dove va a cercarla, se non  nel sapere della sua pappa dell’interprete che gliela fornisce? Essa è sempre nella testa di tale interprete- persino Toby sa che non potrebbe cercarla altrove… Ma allora cosa è ciò che Toby cerca, guardando negli occhi il suo padrone? Non potremmo dire che è la parola che egli conosce e che il cane non può pronunciare?
Prendiamo in prestito, dalla tavolozza di un pittore, un concetto più astratto: il rosso. Che cos’è il rosso? Quando dico “rosso”, subito la mente corre a una cromia, una tonalità che si accorda di seguito con alcuni oggetti simbolici, come il colore del sangue, o il capote del torero sventagliato dinanzi al fiero bovino che lo fronteggia. Questi oggetti tuttavia non sono  il rosso. Questo è una modalità della coscienza che, incrociandoli casualmente, li raccorda ai propri criteri distintivi. Tali criteri sono quindi incommensurabili alla presenza reale del rosso: essi vi preesistono e trovano luogo entro il proprio discernimento- e questo è parlato, nient’altro. Se noi immaginiamo il rosso, senza la parola “rosso”, “vediamo” comunque quella tale tonalità, del sangue, del capote del torero, con la quale la parola coincide. Ma questa percezione “oggettiva” del rosso, non è in ogni caso esente da quella parola, pur omessa, e rappresenta comunque una simbologia più diretta ed elementare della parola, ma non meno chimerica. Ossia, essa è, al pari della parola “rosso”, non oggettiva, non l’oggetto fisico colorato, ma la sua rappresentazione trascendentale, linguaggio fatto di percezione e non di materia. E se tentiamo di risalire la china del “radicale” rosso, per quanta distanza tentiamo di porre tra la parola e l’oggetto, si finisce sempre e comunque davanti alla parola. Il rosso è un concetto. È impossibile pensarlo separatamente, in qualcosa di rosso estraneo alla nomenclatura. Ci andrà sempre a sbattere contro. Perciò diciamo: è trascendentale rispetto ad oggetti rossi in generale. Tutta la nostra esperienza è trascendentale. Perché non ci sono oggetti al suo interno, ma soltanto parole- soffi d’aria cioè, tra corde vocali le cui funzioni originarie sono del tutto estrinseche all’uso de linguaggio. Noi siamo la nostra invenzione, meravigliosa, eterea, svaporante come la brina dell’alba. Ma siamo questo essere che trascende, che travalica, che va oltre se stesso semplicemente auto-nominandosi.   
   
 

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