Scritto da © poetella - Lun, 27/12/2010 - 22:29
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uno stralcio da quello che sto cercando di far diventare un romanzo...ma...boh!
- Non è solo timido, signora - la guarda, la maestra, come se sapesse qualcosa più di lei. Parecchio più di lei. Qualcosa di terribile. Di minaccioso.
- E cosa?
- Lei non si è accorta di niente di strano? Sembra fargliene una colpa, da come la guarda.
E di che si doveva accorgere? Vivevano in simbiosi, praticamente. Tre anni. Solo lei e lui. Due anni e mezzo, magari. Che poi era successa quella cosa.
- Insomma, signora, Giorgio ha problemi. Grossi. Forse deve contattare un medico.
- Medico?
- Uno psicologo. Lo faccia vedere. Lo…
- Ma perché? Che fa? – da che lo vede strano, questa. Che fa a scuola. Che dice. A lei non dice niente Giorgio. Quando lo va a prendere, alle quattro e mezza, piange e piange e piange. Per due ore filate. Ma tutti i piccoli piangono, le prime volte che vanno a scuola. Gliel’aveva detto Rosa. Vedrai che piange. E piangeva. Piangeva da matti. Poi si addormentava stremato. Prima di cena. Alle sette di sera. E quasi sempre si faceva la pipì addosso. Che per mandarlo a scuola avevano voluto che gli levasse il pannolino. È così piccolo. Stressano queste cose.
Certe volte si addormentava pure lei. Sdraiati vicini. Abbracciati.
E la notte stavano svegli. Tutti e due.
Giorgio non dorme mai. Mai dormito, da quando è nato. Dieci minuti di sonno, poi sveglio. Come un grillo. E lei lì, vicino al lettino, a calmarlo.
Che alla fine s’era portata il lettino in camera. Così la notte faceva meno strada. Certe volte, in dormiveglia s’accorgeva di pensare di ninnare il lettino. Ma era ferma. Il braccio lungo il corpo. Immobile. E si svegliava del tutto e ninnava. Per inerzia.
Quelle notti. Quelle prime notti che era quasi felice che si svegliasse.
Per prenderlo in braccio.
Nel silenzio. Nella penombra di luna. Nella quiete del mondo. Attaccato al suo seno. Una cosa sola. Lei e lui. Poteva succedere tutto, ormai, fuori di lei.
Era piena. Satura. Non aveva più bisogno di niente. Che ne sanno gli uomini di che si prova con un figlio in braccio. Deve essere diverso per loro. Sicuramente. Lei si sentiva davvero immortale. Completata della sua metà mancante. Compiuta. Un cerchio perfetto, senza angoli né asperità. Un’entità assoluta e splendente. Un astro. Un dio.
- Stai sempre con quel bambino in braccio, diceva Fabio. E si rimetteva a dormire. Russava quasi subito. Certo che stava sempre con lui in braccio.
Nove anni l’aveva aspettato. Otto mesi a letto, per farlo nascere, dopo la minaccia d’aborto. Otto mesi a letto. Certo che stava sempre con lui in braccio.
La vita cambiata come una vecchia federa, con lui. Ribaltata completamente. Niente che le interessasse più. Tutto il resto del mondo sciacquato, diluito, offuscato. Forse non andava bene. Ma era così. Solo lui. Proteggerlo dal mondo. Capirlo. Prevenire i suoi desideri. Senso di straordinaria potenza. Dipendenza totale. Ricambiata, poi. Mai più sola.
E ora questa maestra le viene a chiedere che c’ha. Ma non c’ ha proprio niente. Certo. È timido. Chiaro che è timido. Sensibilissimo. Fragile. Mai avuto contatti con altri bambini. Sempre con lei. Solo con lei. Se vedeva altri… non era abituato. Era la prima volta, adesso, alla scuola materna, che stava coi bambini. Si doveva abituare. Piano piano. Le facevano una rabbia tutti quei piccoli che giocavano. Tutti disinvolti. Qualcuno pure aggressivo. Determinato. Che strappava i giochi dalle mani degli altri. Di Giorgio. No degli altri. Giorgio non si sapeva difendere. Era così dolce. Fragile. Un poeta.
Dalla classe vicino non arrivava più il canto. Un gruppetto vociante era passato per il corridoio sciamando come api, in testa la maestra. E fuori nel sole, in giardino.
Giorgio non c’era. Era un’altra classe, allora. Aveva nostalgia di Giorgio. Con quella vocina…
A tutto si doveva abituare piano piano Giorgio. Anche a una maglietta nuova.
Che – Te la leva, mamma, diceva. Parlava in terza persona, ma parlava. Sapeva tutti i numeri. Fino a cento. Parlava. Mica li sanno tutti i bambini i numeri fino a cento. Duecentosettanta parole lei aveva scritto sulla piccola agenda nera che si portava dietro, con l’orario delle lezioni e dei consigli di classe. Le parole che diceva Giorgio. A due anni. Su “La mamma in gamba” aveva letto che a due anni ne dicono meno. Non ricordava il numero, ma meno. Sicuro. C’erano un sacco di cose interessanti in quella rivista. Magari erano stronzate. Ma ormai lei ruotava attorno a Giorgio. Tutto per Giorgio.
E andavano bene pure le stronzate. Basta si parlasse di bambini. Chissà se erano così tutte le mamme. A spiare i figli. A decifrare le parole. A controllare pesi e misure e sguardi nuovi.
Poi lei lo capiva pure se stava zitto. I pensieri di Giorgio le venivano incontro, come un vento. I suoi desideri erano larghi e spalancati. Per lei. Luce assoluta. Ogni impercettibile fastidio che provava, ogni malessere, ogni paura, lei lo sapeva. Capiva. Subito. Tutto chiaro. Svelato e cristallino. Per lei. Almeno credeva. Ma era così.
Lei era lui.
(by poetella)
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