Scritto da © Hjeronimus - Dom, 05/02/2012 - 18:38
La porta chiusa della realtà.
Sì, è questo il titolo spontaneo che balza in mente all’osservatore del mondo. Perché è la domanda da un milione di dollari; perché è la pulce millenaria nell’orecchio dell’episteme; perché è il martello del sapere che si abbatte sui geroglifici dell’essere, e cerca di piegarli, di spiegarli, per renderli possibili, affinché la realtà sia qualcosa che non diverga dall’essere.
Già, ma la realtà è un sistema chiuso, da qualunque parte la si voglia trapassare. E il suo appeal è l’apparenza. La realtà ci appare, insinuandoci quella chimera che noi chiamiamo “certezza sensibile”. Questa ci rende determinati sulla di lei effettività, esortandoci ad agirvi sopra onde rendercela più adattabile e agreable. Nel far ciò, non nutriamo dubbi sulle sue consistenza e positività, anche se poi questi affiorano quando siamo costretti a determinare la sua differenza, per esempio dal sogno, o dalla narrazione della realtà… Talvolta capita che non siamo ben certi che tale differenza si manifesti, e così di certi sogni non riusciamo più a ricordare e a determinare la loro distinzione dal vero. Già, ma cosa è vero…? Ci par vero quando la realtà risponde, quando la sollecitiamo e, alla nostra spinta determinata, essa corrisponde con una reazione, magari uguale e contraria, come quella dell’acqua ove si getti un corpo qualsiasi. Così la matematica ha potuto elaborare operazioni tali che ci hanno consentito non solo di intervenire sulla realtà, ma persino di riprodurla su scala virtuale, di modo che al giorno d’oggi disponiamo anche della “realtà virtuale”, ossia di un doppione della realtà reale di cui usufruire per testarla senza “graffiarla”… quindi, ci siamo resi atti, mercé l’”intelligere”, alla manipolazione, al rifacimento, alla alterazione dell’apparenza, piegandola a nostro piacimento. Ma sempre apparenza resta: essa è già virtuale, il nostro doppione non è che il virtuale del virtuale. Tutto ciò che vediamo non è la realtà, ma solo l’orizzonte degli eventi cui compete il nostro guardare. L’agire su di esso resta conchiuso nel recinto della sua apparenza: è un agire sull’apparenza. Un’apparenza composta soltanto dal cerchio magico del discorso, la cui essenza non è altri che il Se stesso a cui è rivolto. Da nessuna parte cui l’occhio dell’esserci possa mai sprofondare, può apparire altro dall’apparenza: si capisce che perciò non può non-esserci un altrove da questo discorso intessuto sull’apparenza, il cerchio magico-linguistico deve trovarsi da qualche parte, deve svolgersi in un luogo. Ma questo luogo, questo altrove, questo spazio ontologico che non può essere cosmologico, è irriducibile al cerchio del logos, non è physis… Tutte le più sconfinate estensioni dello spazio fisico, cui solo un qualcuno può attribuire un concetto di spazio e un concetto di esteso, rientrano comunque in quell’orizzonte degli eventi in cui è provata previa la certezza sensibile, parimenti a tutta quell’immensità, anche l’esistenza della più minuscola pietruzza sulla riva del mare. Un “interno morale” dunque che funzionerebbe allo stesso modo anche invertendo le proprie premesse: se dall’oggi al domani decidessimo che fosse la “incertezza sensibile” a guidare il nostro apprendistato nel mondo, troveremmo allo stesso modo le prove certe dell’incertezza.
Siamo chiusi in una rotatoria infinita, che si può chiamare il tempo, oppure il linguaggio, la cui essenza, essendo storica, coincide col suo moto infinito, traducendosi in destino: il destino di ciò che ruota all’interno della propria esperienza circolare, ossia quello di ritornare eternamente a sé, per quanto si sforzi di affacciarsi su un altrove, per lo meno per sapere se c’è. Un destino in cui si arguisce quasi la inevitabilità di un perno, di un fulcro sul quale l’immensa sfera di cristallo dell’universo in qualche modo poggi. Ma sul quale aleggia la percezione assoluta della propria invalicabile auto-referenzialità, il che esclude a priori qualsiasi logos che cada fuori dal proprio.
Andare perciò a cercare dèi, o altre stranezze, nello spazio profondo, significa soltanto aver frainteso la struttura stessa del ricercare: chi cerca, ritroverà se stesso per l’eternità, perché sta cercando dentro il proprio orizzonte degli eventi, che non è il “fuori”, ma il senso interno del ricercare. Dentro la “realtà” non c’è l’irreale, non c’è trasfigurazione, non c’è ”Dio”, se vogliamo. C’è invece chi guarda, c’è la sua nomenclatura. La ricerca è dentro lo specchio. E nel suo riflesso non v’è altrove.
Sì, è questo il titolo spontaneo che balza in mente all’osservatore del mondo. Perché è la domanda da un milione di dollari; perché è la pulce millenaria nell’orecchio dell’episteme; perché è il martello del sapere che si abbatte sui geroglifici dell’essere, e cerca di piegarli, di spiegarli, per renderli possibili, affinché la realtà sia qualcosa che non diverga dall’essere.
Già, ma la realtà è un sistema chiuso, da qualunque parte la si voglia trapassare. E il suo appeal è l’apparenza. La realtà ci appare, insinuandoci quella chimera che noi chiamiamo “certezza sensibile”. Questa ci rende determinati sulla di lei effettività, esortandoci ad agirvi sopra onde rendercela più adattabile e agreable. Nel far ciò, non nutriamo dubbi sulle sue consistenza e positività, anche se poi questi affiorano quando siamo costretti a determinare la sua differenza, per esempio dal sogno, o dalla narrazione della realtà… Talvolta capita che non siamo ben certi che tale differenza si manifesti, e così di certi sogni non riusciamo più a ricordare e a determinare la loro distinzione dal vero. Già, ma cosa è vero…? Ci par vero quando la realtà risponde, quando la sollecitiamo e, alla nostra spinta determinata, essa corrisponde con una reazione, magari uguale e contraria, come quella dell’acqua ove si getti un corpo qualsiasi. Così la matematica ha potuto elaborare operazioni tali che ci hanno consentito non solo di intervenire sulla realtà, ma persino di riprodurla su scala virtuale, di modo che al giorno d’oggi disponiamo anche della “realtà virtuale”, ossia di un doppione della realtà reale di cui usufruire per testarla senza “graffiarla”… quindi, ci siamo resi atti, mercé l’”intelligere”, alla manipolazione, al rifacimento, alla alterazione dell’apparenza, piegandola a nostro piacimento. Ma sempre apparenza resta: essa è già virtuale, il nostro doppione non è che il virtuale del virtuale. Tutto ciò che vediamo non è la realtà, ma solo l’orizzonte degli eventi cui compete il nostro guardare. L’agire su di esso resta conchiuso nel recinto della sua apparenza: è un agire sull’apparenza. Un’apparenza composta soltanto dal cerchio magico del discorso, la cui essenza non è altri che il Se stesso a cui è rivolto. Da nessuna parte cui l’occhio dell’esserci possa mai sprofondare, può apparire altro dall’apparenza: si capisce che perciò non può non-esserci un altrove da questo discorso intessuto sull’apparenza, il cerchio magico-linguistico deve trovarsi da qualche parte, deve svolgersi in un luogo. Ma questo luogo, questo altrove, questo spazio ontologico che non può essere cosmologico, è irriducibile al cerchio del logos, non è physis… Tutte le più sconfinate estensioni dello spazio fisico, cui solo un qualcuno può attribuire un concetto di spazio e un concetto di esteso, rientrano comunque in quell’orizzonte degli eventi in cui è provata previa la certezza sensibile, parimenti a tutta quell’immensità, anche l’esistenza della più minuscola pietruzza sulla riva del mare. Un “interno morale” dunque che funzionerebbe allo stesso modo anche invertendo le proprie premesse: se dall’oggi al domani decidessimo che fosse la “incertezza sensibile” a guidare il nostro apprendistato nel mondo, troveremmo allo stesso modo le prove certe dell’incertezza.
Siamo chiusi in una rotatoria infinita, che si può chiamare il tempo, oppure il linguaggio, la cui essenza, essendo storica, coincide col suo moto infinito, traducendosi in destino: il destino di ciò che ruota all’interno della propria esperienza circolare, ossia quello di ritornare eternamente a sé, per quanto si sforzi di affacciarsi su un altrove, per lo meno per sapere se c’è. Un destino in cui si arguisce quasi la inevitabilità di un perno, di un fulcro sul quale l’immensa sfera di cristallo dell’universo in qualche modo poggi. Ma sul quale aleggia la percezione assoluta della propria invalicabile auto-referenzialità, il che esclude a priori qualsiasi logos che cada fuori dal proprio.
Andare perciò a cercare dèi, o altre stranezze, nello spazio profondo, significa soltanto aver frainteso la struttura stessa del ricercare: chi cerca, ritroverà se stesso per l’eternità, perché sta cercando dentro il proprio orizzonte degli eventi, che non è il “fuori”, ma il senso interno del ricercare. Dentro la “realtà” non c’è l’irreale, non c’è trasfigurazione, non c’è ”Dio”, se vogliamo. C’è invece chi guarda, c’è la sua nomenclatura. La ricerca è dentro lo specchio. E nel suo riflesso non v’è altrove.
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