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La liberazione della libertà

Il 25 aprile è la festa della Liberazione. Di che? Della mia derelitta madre-patria e dei miei 55 milioni di asini compatrioti- + 1, il più asino, il sottoscritto, che non calca neanche più il patrio fango, essendo migrato altrove. E liberazione da chi? Dal fascismo, ovviamente, dai nazisti, dalla monarchia, dal passato.
Dunque è la festa della libertà, già, ma di quale? Quella positiva delle persone rette e irreprensibili, o quell’altra? Quale altra? Beh, è noto, da noi esiste il “Partito della libertà”, che era maggioranza nel Paese fino a poco fa, e che ha prodotto il regime che, più o meno senza interruzione, ha (s)governato  negli ultimi 10 anni. Per dire cosa fosse questa “libertà” occorre un po’ di dialetto e molta volgarità: era la libertà di farsi i cazzacci propri, infischiandosene del pianeta Terra, del pianeta Uomo, di flore e di faune- un po’ come il maschio dominante di una tribù di gorilla. Certo, era un po’ dura da farsene un’etica, ma com’è noto, la razza cui apparteniamo fa presto a forgiarsi una propria etica sulla base, più o meno inconscia, dei propri interessi e delle proprie pulsioni. Enrico VIII si fabbricò un Dio inglese affinché potesse farsi i cavolacci suoi nel suo (nei suoi) letto nuziale. E qui, d’altronde, in terra elvetica, è divenuto morale ciò che altrove si chiama riciclaggio e ricettazione, ed è perseguito dalla legge. E la destra difende a spada tratta il famigerato “segreto bancario”, proprio mentre pare destinato al declino (vedi gli accordi bilaterali con Bruxelles).
La pasta che ogni mascalzone al potere stende su qualsiasi fangosa, avida volizione, edulcorata dall’etica capovolta, si chiama: razzismo. E ogni problema vien buono a rimpastarcelo dentro. Così, per esempio, oggi ti sento dire da un novantenne che non riesce più a guidare un’automobile che la colpa è del troppo traffico, di cui è colpevole l’esercito dei frontalieri (“Cinquecentomila al giorno!” ha detto. Sono cinquantamila). Comodo no?, non puoi guidare? È colpa del “diverso”… Il razzismo è la fogna in cui tutte le ossessioni, le angosce, le nevrosi dell’uomo qualunque vanno a confluire, formando un marcescente cocktail di scimunitaggine, di rancore e di peccato, su cui aleggiano l’inconscio e la rimozione, come spettri astiosi messi a guardia di una coscienza che non deve mai approdare.
Il fatto è che a 130 anni dalla morte di Karl Marx, la stragrande maggioranza del genere umano ancora non possiede la minima cognizione del suo grande insegnamento. Nessuno prende opportuna coscienza dell’interesse che si cela dietro ogni morale, nessuno pare voler accettare che ciò che ritiene essere i propri traguardi sociali, civili e storici siano semplicemente conseguenti al livello censitario da cui provengono. Così, diciamo un “leghista” nostrano, e persino un presidente del consiglio, per quanto grottesco, si considera più civile, più avanzato, in una, parola superiore di un qualsiasi immigrato africano. Lontanissimo dalla ragione economica, e soltanto economica, di tale supponenza. Noi sappiamo che gli “esseri inferiori”, o non esistono, o sono loro stessi- loro no. Vero che non sanno un accidenti e che quindi ignorano del pari anche il grande insegnamento di Aristotele, o di Cartesio, e persino del Cristo. Già, ma almeno costoro parlavano di filosofia, campo notoriamente ostico che quelle “maggioranze” tendono ad escludere dalle proprie sfere. Marx parlava invece della loro società, di ciò che loro sono, dei loro valori e dei loro interessi. Disconoscerlo ci riporta ad uno dei principali difetti del nostro modo di vivere: il rifiuto della realtà, la rimozione, la negazione di un’evidenza che nega se stessa a se stessa.
È fin troppo facile disconoscere e smentire uno come Marx. Uno che si rivolgeva alla società di Dickens, di Baudelaire, di Stendhal. O di Napoleone Terzo,  o dell’Inghilterra vittoriana. E io stesso asserisco che se “la proprietà privata è un furto”, si apre la porta della dittatura (se io non sono neanche proprietario di me stesso, vuol dire che un altro lo è. Se io mi costruisco uno strumento e quello non è mio, è di qualcun altro- un altro che non può che essere lo Stato, il quale non può che essere un organismo oppressivo pensato contro di me, non a favore. Il cosiddetto comunismo primitivo rischia di incarnare l’unico archetipo verosimile e tout court del comunismo. Il concetto di proprietà, per quanto odioso, comincia proprio dal fondamento dell’essere, che in quanto tale è proprietario di se stesso e del proprio destino.). Tuttavia, bisogna vedere da dove l’osservatore critico guarda a Marx. Perché se lo osserva dal prima, lo critica perché lo teme, non perché ne rileva contraddizioni (che per altro non ci sono neanche in Marx). E lo teme in difesa del proprio tornaconto, non della legittimità o meno della sua analisi. Ossia, viene prima di Marx: non ci è mai arrivato. E non si va da nessuna parte se non si è assimilato il suo messaggio, se ancora non  si riesce a distinguere tra i rumori della propria pancia e la presunzione dei valori etico-sociali con cui si suole contrabbandarli.
Per tornare al nostro Leit- motiv, osserveremo che la libertà è finalmente la libertà di poter disporre liberamente di se stessi, e che questo è un bene che implica comunque il concetto dell’alterità da se stessi: sarebbe difatti assurdo per un naufrago su un’isola deserta rivendicare tale bene. Quindi è un bene condiviso, ove l’altro ne specchia i vantaggi e li condivide, in una sorta di rousseauniano contratto sociale in cui il campo della mia libertà di disporre di me stesso non entra mai in collisione col campo altrui. Certo, facile a dirsi. Poi, all’atto, sembra che ogni mossa della mia libertà di disporre di me entri in belligeranza con quella degli altri. E non sappiamo se c’è spazio sufficiente per tutti al mondo, ma sappiamo questo: il poter disporre del sé dell’essere può implicare una forma degenerativa per la quale il sé cerca di avocare a sé il tutto, ossia la molteplicità, subordinandosela. È questa la forma ingorda della libertà del succitato “partito della libertà”: il suo padrone tende difatti a estendere il suo sé in modo assoluto, sì che ogni cosa rispecchi soltanto tale sé, che diventa ipertrofico, bulimico, parossistico. Prevaricando non soltanto l’altro, ma l’intero panorama dell’essere, che diventa così soltanto il palcoscenico dei suoi appetiti, negandosi nella sua essenza, nel suo orizzonte degli eventi. Il risultato ne è l’autocrazia e la soppressione di quella stessa libertà di disporre della proprietà di sé, da cui pure era partito. Ed è notevole lo scambio dialettico: volendo essere padrone di tutto, senza darlo ad intendere, cerca di diventare il tutto, in modo di apparire come il libero detentore soltanto di se stesso.
Tutto ciò con l’aggravante di privilegiare i soli appetiti di ciò che si è. Perseverando quindi (e diabolicamente) nell’errore fondativo nell’avventura dell’essere: quello di invertire le sue essenze valoriali, dai fondamenti ontologici ed epistemologici del senso, a quelli creaturali e carnali della forma.
La libertà è partecipazione, cantava infine qualcuno. Ed è vero, ma in senso filosofico: la libertà è un ente trascendentale, del quale io partecipo alla pari di qualunque altro io. Deprivata di tale prerogativa comunitaria la libertà diventa inutile, come nel caso del naufrago. Essa è la mia proprietà su me stesso, integra e indivisibile, nell’ambito di una intersoggettività che la riempie di senso, e senza la quale sarei comunque disperato. È quindi un bene felice che è immediatamente tolto, se manca uno dei referenti. Ossia, per la libertà ci voglio io, la libertà e l’altro.  
   
 

 

 
 
 
 

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