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Il tesoro

Salve! Mi presento. Sono il naufragio del Titanic. Sì, così, ho fatto affondare quel ciclope galleggiante. Io mi intendo di catastrofi e so cosa fare in quei casi. Sì, l'ho affondato, è il mio modo di vedere la vita e la tentazione era superiore al mio super-io: siccome io sono, devo esercitare questa mia facoltà ontologica. E così ho inghiottito il Titanic dentro di me e l'ho colato a picco, come fareste voi con un capo di biancheria da lavare a mano.
Ora però, se ci avevo il Titanic dentro, dentro di lui c'era un tesoro. Nessuno lo sapeva e io men che meno, ché l'unica cosa che conosco è  l'onda avvolgentesi su di sé schiumando rabbiosa in superficie, per gettarsi rovinosamente nel massacro della propria auto-divorante spirale.
C'era un tesoro tuttavia, di cui non avevo tenuto conto. E ora mi pungeva vaghezza di andarmelo a cercare, che, magari, chissà?, poteva essermi utile, o piacermi persino. Sì, c'era un bel tesoro nascosto che mi "mordeva" con una necessità sconosciuta, che impercettibilmente mi stava trascinando, siccome è mia abitudine, in un vortice nuovo ed irresistibile...
Così mi gettai "anema e core" in una ricerca pazza e cieca nel cupo silenzio dei fondali oceanici a scrutare se in quel suo profondo ed oleoso indaco non celasse una qualche indicazione al mio ambizioso desiderio.
Come uno squalo, m'intrufolai sinuosamente nella sua carcassa adacquata e scrutai nei suoi fondali variopinti, luttuosamente trasvolati da cadaveri "ballerini" fluttuanti, come esche volenterose a squali effettivi, colà sospinti dal sentore della catastrofe. L'istinto mi guidò all'interno di anditi sempre più improbabili, scivolando dentro corridoi che mi apparvero inopinatamente recenti, come concepiti aldilà dell'ora zero dell'affondamento. Un certo gelo avvolse il mio cricchiante metabolismo, di me, il signor Naufragio, allo sciorinarsi al mio cospetto di quei mondi raffinati e fuori luogo che qualcosa come la mia navigazione al loro interno rendeva verosimili. Credevo di non poter credere a quel che veniva concepibile soltanto al mio sguardo d'acqua vacillante, che, appunto, sembrava vero in quanto lo guardavo... e che, era per me che il Titanic si era sacrificato?...
Penetrai, a questo punto, in una sorta di bugigattolo tiepido e imbottito, al cui interno una specie di alito caldo vagolava allettante e gradevole, dopo tutto quel profondare nel freddo funebre dell'abisso, che irresistibilmente ti chiamava dentro a riprender fiato e a rinfrancarti dalle fatiche della traversata. Ero confuso, incerto. Non riuscivo a veder chiaro in che tipo di  Interno mi trovavo. Ero io, il Naufragio, dentro una figura del mio stesso scibile che mi rendeva evidente, come dire?, l'indotto dei miei tragici commerci, oppure mi s'andava configurando alcunché di nuovo, inteso a sradicarmi dal fio dovutomi, per tra-ascendermi in una condizione di insperata e risorgente innocenza?
Mi guardai intorno. L'imbottitura rossa dei velluti, alle pareti, sembrava respirare all'abbraccio, ora enigmaticamente quieto, del mio occhio liquido. Ciò mi riportò alla mia ragione fondante: l'acqua! Non v'era acqua là dentro! Non potevo esisterci! Non poteva darsi un naufragio all'interno di un luogo caldo e asciutto! Guardai allora nella cornice dorata, lucente, di un ritratto sulla parete di fondo. Mi feci più accosto, mentre il volto lì ritratto parve lievitare nel fissarmi. Tesi la mano e toccai la superficie del dipinto, cioè toccai la fredda e levigata superficie di uno specchio*... e capii: non ero più il mio naufragio!...Qualcosa, là, in fondo all'ultimo gelido e buio ganglio d'acqua del mondo, accogliendomi nella sua calda alcova, m'aveva mutato di segno, liberandomi in una sconcertante e sensuale humanitas di cui non riuscivo a venire a capo.
Chi ero? Cos'ero? Questi interrogativi impresero a martellarmi il comprendonio senza requie, di modo che mi sentii sfiorare da un alito di pazzia come da alcunché di carezzevole, intercedente a mio favore per farmi gentilmente precipitare in una provvidenziale incoscienza.
Ma la soglia di quest'ultima m'era interdetta. Non potevo svenire! Dovevo ancora restare presente all'ultimo disvelamento di quell'imbroglio. Così mi sovvenni di quel che ero andato a cercare là dentro: certo, il tesoro! Là, dovevo cercare! Certamente là dentro doveva trovarsi quel che con tanta difficoltà ero venuto a cercare con l'assurdo sacrificio del mio moto di catastrofe ad un umanesimo, sin lì considerato, e con grande compiacimento, la mia preda, non il mio obiettivo. Ma se ora l'uomo s'era posto al centro del mio io, ciò esigeva almeno l'esaudimento della promessa che a tal sacrificio mi aveva condotto: volevo il tesoro. adesso! Datemi il tesoro! Ero il possente Naufragio sedotto e convertito alla fragile condizione umana al prezzo irrisorio di una ricchezza soltanto probabile, incerta... e ora un'amabile voce di donna interviene in questo intrigo, soavemente annuendo: sono io il tuo tesoro sommerso. Sàlvati dal naufragio, vieni qui, caro,  vicino a me. Sdraiati, mettiti comodo. Non v'è acque al mondo capaci di equivalermi. Siediti qui, calmo, e resta vicino a me...
E questo vuol dire che l'unico tesoro adatto all'uomo, e cioè a ciò che ero diventato in fondo al mare, è la donna, una donna che sappia, possa e voglia amarlo. Non ero più un naufragio, non provavo più amore per le catastrofi che fin lì m'avevan sostenuto, non ero più determinato da questo amore-contro inteso ad abbattere, perché mi stavo ri-costruendo a muovere da quella metamorfosi, ingenerata dal soffio a me sin qui  ignoto, di amore-per...
*H.P. Lovecraft: "L'estraneo".
 
 
 
 
 (Racconto pubblicato - Bocca Editori, Milano 2004)
 

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