“Una donna
nel suo giardino
guarda il cielo
sotto il sole spento di Febbraio."
Torno in cucina.
Prendo la scatola
e la svuoto sul tavolino.
Metto le pillole
in cinque file da cinque.
Trenta, neanche tante.
Acqua e ingoio.
Una.
Ho così tanta calma addosso
che non riesco nemmeno a dormire. Due.
Sono tre ore che ho gli occhi chiusi
e fingo la morte.
Non so che fare di me.
Non so dove mettermi.
Dove portarmi.
Questo corpo da donna
m’intrappola e m’imprigiona.
Tre, quattro.
Ho il terrore di svegliarmi, un giorno
mentre mi stavo toccando nel sonno. Cinque.
(Silenzio. Penso a cosa mi direi.)
Sei.
La sesta non va giù.
Mi si incastra tra la bocca e la gola.
Tossisco
e vomito il nulla
sul pavimento.
Sette. Nausea da acqua.
Potrei finire, da sveglia
e dal falso
riportare un liquido vero, bagnato.
Godendo. Realmente di un sogno.
Otto.
Uccidendolo.
Il pittore sogna che sul pennello
sbocci un fiore, ma se lo fa, un istante
ed è già appassito.
Le onde sbattono
sulle pareti dello stomaco. Nove. Dieci.
L’esistenza mi pesa.
Non erano noti casi di sovradosaggio da Sedatol.
Undici. Detesto l’idea
che qualcuno stia dentro di me
e mi guardi. Dodici, tredici.
O da fuori, la pelle. Quattordici.
Gli altri :
Cos’hai? -niente, cos’hai? -sono stanca
cos’è successo? -nulla, Quindici, sedici.
stai male? -no. Va tutto bene. Diciasette.
Non so parlare.
Non mi so esprimere, ma ho il controllo delle mani.
Diciotto, diciannove.
Vorrei solo averlo vicino, sentire il suo profumo, vorrei solo
poggiarmi sulla sua spalla.
Non importa una relazione.
Vorrei solo poggiarmi sulla sua spalla, adesso.
Venti.
Perchè presto i ricordi
se ne andranno
e sarà lontana l’emozione
che mi faceva scoppiare i sorrisi.
Vorrei essere come una fenice
e rinascere bella dalle ceneri. Ventuno.
Ho bisogno di essere amata. Ventidue.
E quindi provare dolore.
Ho bisogno di essere sconvolta, ventitre, e, a mia volta
sconvolgere.
Vedere che effetto fa
essere desiderio. Ventiquattro.
Amo tutto ciò che non esiste. Venticinque.
E se prende forma abbasso gli occhi. Ventisei.
E’ difforme. Scappo. Ventisette. Cambio.
Il tempo non trascorre nè lentamente nè in fretta.
Ventotto. Sono abituata all’assenza.
A volte dimentico di respirare. Ventinove.
Segue la fame d’aria, che fischia, dentro questa gola
che a tratti si chiude. Trenta.
Vado in camera.
Ho una bella stanza, con due letti.
In uno dormo io
nell’altro veglia l’ansia.
Fuori, i balconi sono tristi.
<< Domani alle Otto sarò fuori di qua. >>
Ascolto, e la voce esce dal muro e lo crepa.
Mi ci siedo davanti con le ginocchia a contrasto.
<< La scorsa volta persi una caterva di sangue
tentai di spararmi
dall’aria alla terra, a fittone. >>
Il muro si gonfia e cede.
Non mi muovo.
<< Sporcai molto e non servì a niente. >>
Ad ogni parola
pezzi d’intonaco
a caduta sulle gambe
ma lentamente
anche se più veloci delle mani
come piume soffiate
dalla bocca di un cannone
a fiori accesi.
<< L’essere umano tende ad imprigionarsi
se cerca di scappare, mentre l’animale
si cattura in stato di libertà>>
Non c’è più luce.
<< Perchè fai quella faccia? >>
e finalmente mi riconosco.
Sono io. Sono la terra, il tempo, sono la morte
e l’aria che mi blocca il respiro.
Sono la gabbia e l’abuso.
Sono la corona e abito le facce di quelli
che ci sputano sopra.
Sono il muro ed esisto
in questa stanza
anche priva d’anima.
Deja vù, di me
che sviene sul pavimento
mentre nell’aria
suona ancora l’eco
del tonfo di un corpo caduto
e mi viene da piangere
pensando
a questo sorriso idiota
che sembra sfrecciare sottovoce
su una strada di rabbia
mentre io
finalmente
dormo
e mi guardo.
- Blog di Scintilla Elis
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