Scritto da © Antonio Ragone - Gio, 07/07/2011 - 19:04
Un giorno - forse era un pomeriggio torrido d'estate - non sapevo cosa fare e, per caso, mi trovai tra le mani un dizionario della lingua italiana. Lo sfogliai senza alcun interesse, vedevo solo accavallarsi ad ogni foglio le parole in neretto corrispondenti ai vocaboli della lingua italiana.
Penso, ad un certo punto, mentre continuavo a sfogliare, d'essermi addormentato in compagnia del dondolìo della poltrona di vimini.
Ma forse stavo solo in dormiveglia.
Aprii gli occhi giusto per un attimo quando cambiai posizione sulla sedia, e il libro tra le mani mi si aprì. E lessi, quasi senza accorgermene, la seguente definizione:
– Avarizia: smodata cupidigia di denaro e di averi, ed eccessiva tenacità nel conservarli.
Poi, richiusi gli occhi.
Un bambino correva lungo la stradina fitta di fichidindia sotto piante di quercia. Al di là del muretto che delimitava la stradina cespugli ed ortiche erano nati sotto alberi di carrube, e più giù ancora, la roccia che scendeva sino al mare, la tirrenica roccia su cui esili agavi s'innalzavano.
Il suono dell'estate era la cicala nascosta forse tra i rami del centenario pino e il cinguettio di passeri irrequieti.
In questo schietto gioco la corsa del bambino era la pagina vitale più armoniosa, il movimento che spinge l'uomo a fare la sua storia.
Il suo sudore mattutino brillava ai raggi del solerte sole, quando, ad un tratto, i suoi ginocchi conobbero il duro contatto della ghiaia. Sul viso apparve il segno del dolore, gli occhi, prima si gonfiarono, poi sparsero lacrime.
La mamma sentì il flebile pianto del bimbo, e accorse, segnando in quel breve tragitto, un segmento d'amore. Appena giunta, lo sollevò da terra, svincolandolo dal tronco della quercia, al quale, cadendo, s'era come abbracciato. Il bimbo si strinse, lenendo il suo dolore, all'esile collo della madre.
Gracile il corpo della donna, eppure così forte fu l'abbraccio al figlio mentre lo portava verso casa, dove il melograno faceva ombra.
– Oh, eccoti finalmente! – Fu questa l'esclamazione che accolse Angela appena rientrata in casa.
La ragazza non batté ciglio, non perché quelle parole non la ferissero, ma per l'assuefazione conquistata in quel tipo di trattamento: essa era la migliore delle protezioni agli sconforti, alla desolazione, alle angosciose solitudini.
Anche la fatica che copriva l'intero giorno, dall'alba al tramonto, così stancante e muta, la proteggeva e la isolava dal presente e dal passato, così denso, quest'ultimo, di ricordi più grandi della sua giovane età.
I ricordi sono come semi gettati nella terra fertile della nostra mente: gli anni e la loro vita sono l'acqua che li alimenterà. Come alberi spunteranno tra i meandri dei nostri misteri, spontaneamente cresceranno, silenziosi, sì che noi nemmeno ne avvertiamo la presenza e i mutamenti. Durante il viaggio, alcuni di essi forse seccheranno, altri si fermeranno a una certa altezza, e altri ancora diventeranno alti, sempre più alti.
I ricordi ancora sono come frutti raccolti lungo il sentiero e messi nel sacco che portiamo sulle spalle già dalla nascita: pian piano esso si riempirà e, crescendo, sarà sempre più pieno, così matureremo.
Il sacco non ha un peso preciso: a volte pesa pochi grammi o quasi niente se i suoi frutti ci fanno gioire e ci aiutano a continuare il viaggio; altre volte ha un peso indescrivibile e vorremmo liberarci del carico di taluni frutti. Eppure anch'essi fanno parte del sacco che è soltanto nostro, anch'essi maturano la vita alla luce dell'esperienza.
– Dove sei stata, eh? Sempre dietro a questo moccioso! – la voce riprese più burrascosa di prima.
Angela si voltò d'istinto, ma nemmeno sfiorò lo sguardo della donna che le stava di fronte, immobile, appena curva sulla schiena, gli occhi fissi e severi e le braccia ai fianchi.
La sera, a letto, il piccolo Nicola, con la testa sul cuscino, aveva lo sguardo perso nel vuoto. A tratti gli occhi, sopraggiungendo il sonno, gli si chiudevano per poi riaprirsi, ma solo brevemente. Così, lentamente, si addormentò, dopo ch'ebbe avuto cura di farsi il segno della croce.
La mamma girava per la piccola stanza mettendo in ordine i pochi vestiti sparsi sul letto e sulla sedia. Poi guardò il figliuolo e si commosse a vederlo dormir così serenamente. Si sedette al suo fianco e gli poggiò la testa vicino.
E il sacco dei ricordi si svuotò, inesorabilmente.
Angela e Mario camminavano lungo la spiaggia in una tiepida mattina che a volte il freddo e piovoso gennaio regala agli abitanti del mare.
Si dicevano il loro amore stringendosi le mani, poi si nascosero tra le barche puntellate sulla sabbia, e il corpo di lei per la prima volta si scoprì all'amore.
Più tardi, ancora passeggiavano più vicini al mare, proprio dove l'onda lambiva la spiaggia.
– Ti sposerò – le disse Mario – voglio sposarti. Sto mettendo da parte i soldi. Quest'anno la pesca è buona.
Le strinse ancora la mano, e poi si allontanò.
Angela restò a guardarlo, mentre il pensiero le divenne triste.
– La pesca è buona – pensò mentre lo vedeva allontanarsi, e lo sentì davvero sempre più lontano.
Come lontano, e cupo, all'alba del giorno dopo, fu il boato che si sentì sul mare, al di là della scogliera.
La voce di morte risuonò nelle strade del villaggio dei pescatori, si sparse per i vicoli, entrò nelle case: – Mario è morto.
Angela percepì il tragico messaggio.
Doveva essere notte avanzata, dopo questi ricordi.
Ella si voltò verso il bambino e lo accarezzò.
– Domani andremo via – disse al bimbo come se potesse ascoltarla – non possiamo più restare qui. Andremo in città, là cercherò mio fratello, avrà trovato un lavoro, forse ci aiuterà. Domani andremo via.
E all'indomani, appena il giorno s'era levato, Angela era già pronta sulla soglia della casa. Aveva gli occhi rossi e lucidi per il pianto e la notte insonne. Con una mano reggeva una vecchia valigia di cartone, con l'altra la piccola mano di Nicola.
La vecchia Adele, com'era sua abitudine, era già per i campi. Quando vide Angela e il bambino, strinse intensamente i pugni delle mani. E, forse, prima che il cuore s'indurisse ancor di più, sentì un leggero fremito caderle addosso come la piuma di un'allodola passeggera. Forse voleva accostarsi, ma i piedi avevano i muscoli tesi sulla sabbia smossa dai colpi della zappa.
Non fecero altro, le due donne, che guardarsi a distanza, e fu un addio senza parole.
Quella sera la vecchia Adele si chiuse nella sua stanza prima del solito, e quelli che le stavano attorno, serve e operai, se ne stupirono molto.
– La vecchia, questa sera, ha parecchi soldi da contare – qualcuno disse sottovoce.
Una delle serve, infatti, una volta raccontò d'aver visto di notte, attraverso la fessura della porta chiusa, la vecchia che, seduta sul letto, contava e ricontava soldi. Dopo il racconto qualcuno ammonì quella ragazza, perché non era bello mettere il naso nelle cose segrete degli altri; ma i più mormorarono:
– Si sa che la vecchia è molto avara.
– E non spende nulla del suo denaro.
– Sono anni che lo mette da parte: chissà come sarà ricca!
Quella sera, invece, Adele non contò i soldi.
Restò a lungo seduta ai bordi del letto, le braccia tese sulle gambe e il busto eretto.
E anche per lei, inesorabilmente, il sacco dei ricordi si svuotò.
I ricordi di Adele salirono a uno a uno dalle profondità della sua memoria, si adagiarono nella sua mente, parlavano, chiedevano.
– Adele, Adele... – la voce del marito abbandonato nel suo letto agonico.
– Adele. un po' d'acqua, ho sete... soffoco...
L'inutile attesa della moglie, e poi, tragico, il tonfo del suo corpo sul pavimento, inutilmente teso verso il bicchiere sul comodino.
Poi accorsero le serve, chiamate dai rumori, mentre inconsuetamente e suggestivamente nevicava sul podere e sul mare.
– Mamma.. – com'era lontana la voce del figlio. Da dove proveniva? Dov'era, in quel momento. quel figlio che fuggì di casa? E i suoi occhi? Com'erano, cosa volevano i suoi occhi?
Si possono descrivere le parole, darne o cercarne un senso, analizzarle; ma spiegare gli occhi, tradurre in parole le loro espressioni è possibile solo in minima misura.
Gli occhi del figlio avevano i colori dell'implorazione e della paura; e di quanti altri colori ancora? Colori di domande, di rimorsi, persino di odio; e ancora, di pietà, di vendetta, tutti sulla stessa tavolozza.
Con questi ricordi Adele passò tutta la notte, i lunghi capelli grigi sciolti le cadevano fin sopra la schiena, si appoggiavano sulla coperta bianca del letto.
Intanto, dai fori della finestra, qualche leggera luce s'intravedeva.
Tante albe ancora Adele vide rifiorire sul mare, da quella notte di ricordi, tante albe impregnate di profumi campestri e marini, o di temporali che chiudevano persino la linea dell'ultimo orizzonte; ancora tante albe accompagnate dal rombo del vapore in lontananza che chiedeva il permesso di entrare nel porto, dalle barche che tornavano a riva dopo la notturna pesca al largo, cariche di uomini e pesci, dal grido dei gabbiani appoggiati sui pali dei mitili.
Nel vasto arcipelago umano Adele era avulsa da quei movimenti, per lei tutto era fermo, tranne il tempo e la vita.
Invecchiava sempre più, come tutto invecchia; ma ogni anno le dava la sua razione di vecchiezza senza pietà, in disarmonia col tempo.
Se il giorno con il suo chiarore riesce a tener chiusi dentro i volti degli spettri e a soffocarne trepide le voci, la notte, adombrando, li libera dal giogo.
Così essi, spezzate le catene, si insinuano tra le barche addormentate, tra gli alberi, strisciano sui sentieri cosparsi di fogliame, nella pioggia sono gocce che cadono, inesorabili, sempre sullo stesso punto della memoria umana, nel vento sono sospiri che volano in cerca di qualcuno da sfiorare.
Una notte d'inverno inoltrato, dalla finestrella socchiusa, penetrarono nella stanza di Adele, insieme con il buio, sospiri di vento inumiditi di pioggia, la pioggia che, scesa già dalle prime ombre della sera, accompagnava tuoni impetuosi e lampi che segnavano uno squarcio di luce sino all'ultimo orizzonte, dove il mare sembra finire.
Adele si guardava allo specchio, come per tutto il giorno aveva fatto. I suoi occhi erano rossi e una lacrima tardiva scendeva attraverso le rughe.
Intanto entravano, quei sospiri, nella stanza, sfiorando la fiamma della candela posta sul comò accanto ad Adele, e Adele non poteva fermarli. La tenue fiamma dondolava e con essa i volti tormentati sulle pareti, maschere erano con occhi sbarrati di sangue che colava lungo le facce ora oblunghe, ora schiacciate: ridevano, ridevano, e Adele non poteva zittirli; piangevano, piangevano, e Adele non poteva allontanarli.
Come lontano era il suono delle loro voci, giungevano certamente da una valle così lontana da Adele, eppure così vicina a sé, così dentro di sé.
Per gran parte della notte, di quella notte di Adele, le immagini e le voci popolarono la stanza, che volteggiava anch'essa nella penombra, sì da sembrare un atomo indistinto nell'universo della vita.
Poi i sospiri cessarono, e le immagini e le voci si calmarono, e la stanza si fermò.
E allora apparve, senza alcun rumore, riflessa nello specchio, Angela: si muoveva come sospesa nell'aria.
– Angela... sei tornata?... Oh, Angela, sono tanto sola...
Adele disse queste parole senza voltarsi, fissando la figura di Angela nello specchio.
Angela piangeva e aveva pallido il volto.
– Dov'è Nicola – chiese Adele?
Angela abbassò il volto.
Adele si voltò di scatto, voleva correre ad abbracciar Angela, ma non c'era nessuno dietro di lei, se non il vuoto gelido, il nulla.
Abbassò il capo, si rigirò verso lo specchio, e così la rivide.
E di nuovo chiese: – Dov'è Nicola?
Angela socchiuse gli occhi.
Adele capì, e disse: – Ora lo so, siete morti, siete tutti morti.
Un rumore tinnulo girava per l'intera casa, scuoteva la sua quiete. Come un segno intermittente esso si infiltrava nella mente stabilendosi nei tratti delle tempie, sconvolgendo la linea di frontiera che separa il sogno dalla realtà.
Per qualche momento penso d'aver esitato a quel richiamo, non volendo distogliermi, forse stavo dormendo, ma essendo tutto ormai giunto alla fine, capii che potevo ridestarmi.
E sudato e frastornato, aprii gli occhi.
Il telefono squillava chissà da quanto!
Mi alzai di scatto dalla sedia e corsi all'altra stanza, non prima d'aver inciampato nel dizionario che nel frattempo m'era caduto tra i piedi.
Tirai su la cornetta del telefono: – Pron.. pronto...
La voce di donna che rispose alla mia rituale domanda arrivava al mio orecchio attutita e scomposta per la lontananza, e disturbata da un fruscìo: forse per questo l'avvertii tremante, ansiosa, roca come una voce vecchia.
– C'è Angela? – chiese la voce.
D'istinto risposi: – Angela è andata via. Per sempre.
Io ritornavo dal passato.
La voce, allora, domandò stupìta, sempre più lontana: – Come?... Per sempre?
Mi ripresi: – No, qui non c'è nessuna Angela. Forse... credo...
La voce si sovrappose, smorzando quel mio barbugliare: – Allora... ho sbagliato, ho sbagliato numero. Mi scusi, ho sbagliato.
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