Scritto da © Hjeronimus - Gio, 11/11/2010 - 19:08
Se mi cogliete in flagrante sulla matematica, potrete facilmente verificare l’inconsistenza delle mie risorse in merito. Tutto ciò che ne so è teorico. Il principio di indeterminazione, la teoria delle catastrofi, la relatività, le “corde”… Per me è sufficiente che questi titoli prevedano un contenuto matematicamente dimostrato, senza che debba io stare a farlo,per trarne l’utile che me ne può venire.
Come qualmente per il cosiddetto principio di Heisenberg: m’intrigano i risvolti, come dire?, esistenziali, umanistici: dalla nozione d’osservabilità della particella o come posizione o come velocità (quindi come massa e/o energia), non mai le due insieme, e anche della celebre conseguenza: Gli atomi non sono “cose”, ne deduco una considerazione sull’atto di chi osserva, non soltanto la pur sorprendente determinazione della nostra incorporeità, del fatto di non esser fatti.
Qui, si aprono due sentieri speculativi: da un lato la luce cade sul Testimone: chi è costui? Da dove viene, che funzione ha? E’ lui la sua propria epistemologia, il Nume che crea se stesso nell’atto stesso di crearsi?
Dall’altro lato, se noi non siamo fatti, si spalanca davanti e sotto di noi l’abisso inafferrabile dell’anima (al di sopra si apre lo “sfondamento barocco” dell’infinito) – cioè di ciò che resta della nostra costituzione, avendo escluso la materia: ciò di cui siamo fatti davvero.
Ora, nella storia del genere umano il Sapere presenta un vantaggioso atto germinale, quello compiuto dai greci: la “fabbrica” dell’episteme. Da quella primigenia cellula di Logos e di autocoscienza tutte le altre sono poi derivate. La conseguenza non sta nelle magnifiche e progressive sorti eccetera, bensì nel contrario: comprendere (e lo sforzo è enorme) che di laggiù germoglia una grandiosa ipotesi morale, “metafisica”, sovra (o extra)-naturale sull’esistenza stessa del Creato, l’ipotesi di una suprema ontologia cogente, che inizia ad auto-crearsi nell’atto della sua propria auto-analisi. Crede cioè di scoprirsi, mentre si sta inventando. L’uomo, inteso come homo, come umanesimo, nasce lì. Egli è il testimone di se stesso, della propria nascita. Perché lo definisco tale? Perché, testimone? Per il semplice fatto che il “pensiero cogente” è dialettico: crea ossia un duplicato di ciò che semplicemente esiste, e lo traduce in una neo-formazione, una concrezione bio-logica che pur movendo dall’universale indifferente da cui attecchisce, non è più già puro esistere a-referenziale ed a-ermeneutico(come quello per esempio dei dinosauri). Le cose che non sono fatte, da quel momento in poi, acquisiscono una sorta di plus-valenza escatologica, sono già anima.
Ecco emergere una quasi-risposta al più pregnante dei nostri quesiti: siamo fatti di sola anima, senza la carne. Ma ci torneremo su.
Al momento del concepimento di questo doppio ontologico il Sapere si lancia in un’affannosa rincorsa del Primo da cui procede come Secondo. Cerca un’apertura trascendentale, in cui ambedue le parti trovino giustificazione in un’armonica ricongiunzione in un Assoluto ultraterreno. (La cerca anche per l’angoscia della morte, che domina incontrastata ogni metafisica; ma questo è già noto e non aggiunge gran che). E macina invenzioni sovrumane che, ogni volta, sembrano configurare una vittoria definitiva. Come oggi tocca alla tecnologia, tale scettro appartenne primordialmente alla matematica (anche se si può dire che matematica e tecnologia siano la stessa cosa): i primi antesignani credettero che l’universo intero soggiacesse a leggi matematiche severe e inappuntabili, e che Dio stesso fosse un rappresentante della loro disciplina. Già, fino ad Heisenberg e alla relatività, dov’essa sfocia di nuovo nella indeterminatezza. Il problema era nel manico: il doppione epistemologico del puro essere indimostrato era ed è tutto appunto nel Sapere, che è sempre e necessariamente appannaggio di un “chi” detentore, di un testimone. Il sapere l’essere ha necessariamente bisogno di qualcuno, anche la matematica, anche la tecnologia, esso è umanistico, non universale. In quanto tale il testimone è anche esistenziale ed è, ne può non essere, io (la differenza ontologica di Heidegger).
Detto altrimenti: non si può dimostrare l’essere – perché c’è sempre un “chi” che lo dimostra e lo fa utilizzando una chiave linguistica, dimostrando la dimostrazione semiologica della sua lingua, non l’essere. Io è il testimone, che qualunque prova o argomento addotti, sempre l’inquina e l’altera con la sua presenza. E nel suo duplicato del reale c’è sempre il suo zampino trasfigurante a renderlo chimerico, rarefatto, inarrivabile…
La psicoanalisi lo manifesta ampiamente. Non solo la cura sta nell’iniziare una cura – nel comprendere cioè che c’è un problema, o una malattia, è uguale. Ma la cura cambia a seconda di chi la pratica: nel transfert la cura è il testimone curativo di chi ha deciso di curarsi.
Qualsiasi cosa intraprendiate per sapere qualsiasi cosa, vi scontrerete ineluttabilmente con l’ostacolo che voi stessi siete – perché il voler sapere vi risucchia nel vortice dell’episteme, che non è la verità, ma la più grandiosa e gigantesca traiettoria di avvicinamento alla verità di cui si abbia notizia. E ciononostante, il suo clone, non una sua effettività, a noi per sempre preclusa dal fatto di saperla.
Di qui si evince anche quello che diceva Jaspers: fuori dell’io onnivoro ed auto-referenziale c’è, c’è per forza, una possibilità – ma è trascendenza nera e impenetrabile, ostile all’uomo e refrattaria ai suoi valori, inutile cercarla.
Dall’altro lato, ci resta comunque un risultato importante: la dimostrabilità di un’anima quale nostra essenza è un falso problema, essendo essa implicita nel sistema dell’episteme che ci pertiene. Il vero problema è invece l’indimostrabilità dei nostri corpi. Noi risultiamo spettrali alla nostra auto-indagine, sia essa filosofica, psicoanalitica o matematica. La nostra intelligenza garantisce soltanto il nostro spirito – perché pensa, sente, crea – non la nostra “natura naturata”, il nostro essere corporeo, che, alla luce del nostro Sapere sulla Fisica e sulla Metafisica di ciò che è, di ciò che siamo, neanche appare…
Come qualmente per il cosiddetto principio di Heisenberg: m’intrigano i risvolti, come dire?, esistenziali, umanistici: dalla nozione d’osservabilità della particella o come posizione o come velocità (quindi come massa e/o energia), non mai le due insieme, e anche della celebre conseguenza: Gli atomi non sono “cose”, ne deduco una considerazione sull’atto di chi osserva, non soltanto la pur sorprendente determinazione della nostra incorporeità, del fatto di non esser fatti.
Qui, si aprono due sentieri speculativi: da un lato la luce cade sul Testimone: chi è costui? Da dove viene, che funzione ha? E’ lui la sua propria epistemologia, il Nume che crea se stesso nell’atto stesso di crearsi?
Dall’altro lato, se noi non siamo fatti, si spalanca davanti e sotto di noi l’abisso inafferrabile dell’anima (al di sopra si apre lo “sfondamento barocco” dell’infinito) – cioè di ciò che resta della nostra costituzione, avendo escluso la materia: ciò di cui siamo fatti davvero.
Ora, nella storia del genere umano il Sapere presenta un vantaggioso atto germinale, quello compiuto dai greci: la “fabbrica” dell’episteme. Da quella primigenia cellula di Logos e di autocoscienza tutte le altre sono poi derivate. La conseguenza non sta nelle magnifiche e progressive sorti eccetera, bensì nel contrario: comprendere (e lo sforzo è enorme) che di laggiù germoglia una grandiosa ipotesi morale, “metafisica”, sovra (o extra)-naturale sull’esistenza stessa del Creato, l’ipotesi di una suprema ontologia cogente, che inizia ad auto-crearsi nell’atto della sua propria auto-analisi. Crede cioè di scoprirsi, mentre si sta inventando. L’uomo, inteso come homo, come umanesimo, nasce lì. Egli è il testimone di se stesso, della propria nascita. Perché lo definisco tale? Perché, testimone? Per il semplice fatto che il “pensiero cogente” è dialettico: crea ossia un duplicato di ciò che semplicemente esiste, e lo traduce in una neo-formazione, una concrezione bio-logica che pur movendo dall’universale indifferente da cui attecchisce, non è più già puro esistere a-referenziale ed a-ermeneutico(come quello per esempio dei dinosauri). Le cose che non sono fatte, da quel momento in poi, acquisiscono una sorta di plus-valenza escatologica, sono già anima.
Ecco emergere una quasi-risposta al più pregnante dei nostri quesiti: siamo fatti di sola anima, senza la carne. Ma ci torneremo su.
Al momento del concepimento di questo doppio ontologico il Sapere si lancia in un’affannosa rincorsa del Primo da cui procede come Secondo. Cerca un’apertura trascendentale, in cui ambedue le parti trovino giustificazione in un’armonica ricongiunzione in un Assoluto ultraterreno. (La cerca anche per l’angoscia della morte, che domina incontrastata ogni metafisica; ma questo è già noto e non aggiunge gran che). E macina invenzioni sovrumane che, ogni volta, sembrano configurare una vittoria definitiva. Come oggi tocca alla tecnologia, tale scettro appartenne primordialmente alla matematica (anche se si può dire che matematica e tecnologia siano la stessa cosa): i primi antesignani credettero che l’universo intero soggiacesse a leggi matematiche severe e inappuntabili, e che Dio stesso fosse un rappresentante della loro disciplina. Già, fino ad Heisenberg e alla relatività, dov’essa sfocia di nuovo nella indeterminatezza. Il problema era nel manico: il doppione epistemologico del puro essere indimostrato era ed è tutto appunto nel Sapere, che è sempre e necessariamente appannaggio di un “chi” detentore, di un testimone. Il sapere l’essere ha necessariamente bisogno di qualcuno, anche la matematica, anche la tecnologia, esso è umanistico, non universale. In quanto tale il testimone è anche esistenziale ed è, ne può non essere, io (la differenza ontologica di Heidegger).
Detto altrimenti: non si può dimostrare l’essere – perché c’è sempre un “chi” che lo dimostra e lo fa utilizzando una chiave linguistica, dimostrando la dimostrazione semiologica della sua lingua, non l’essere. Io è il testimone, che qualunque prova o argomento addotti, sempre l’inquina e l’altera con la sua presenza. E nel suo duplicato del reale c’è sempre il suo zampino trasfigurante a renderlo chimerico, rarefatto, inarrivabile…
La psicoanalisi lo manifesta ampiamente. Non solo la cura sta nell’iniziare una cura – nel comprendere cioè che c’è un problema, o una malattia, è uguale. Ma la cura cambia a seconda di chi la pratica: nel transfert la cura è il testimone curativo di chi ha deciso di curarsi.
Qualsiasi cosa intraprendiate per sapere qualsiasi cosa, vi scontrerete ineluttabilmente con l’ostacolo che voi stessi siete – perché il voler sapere vi risucchia nel vortice dell’episteme, che non è la verità, ma la più grandiosa e gigantesca traiettoria di avvicinamento alla verità di cui si abbia notizia. E ciononostante, il suo clone, non una sua effettività, a noi per sempre preclusa dal fatto di saperla.
Di qui si evince anche quello che diceva Jaspers: fuori dell’io onnivoro ed auto-referenziale c’è, c’è per forza, una possibilità – ma è trascendenza nera e impenetrabile, ostile all’uomo e refrattaria ai suoi valori, inutile cercarla.
Dall’altro lato, ci resta comunque un risultato importante: la dimostrabilità di un’anima quale nostra essenza è un falso problema, essendo essa implicita nel sistema dell’episteme che ci pertiene. Il vero problema è invece l’indimostrabilità dei nostri corpi. Noi risultiamo spettrali alla nostra auto-indagine, sia essa filosofica, psicoanalitica o matematica. La nostra intelligenza garantisce soltanto il nostro spirito – perché pensa, sente, crea – non la nostra “natura naturata”, il nostro essere corporeo, che, alla luce del nostro Sapere sulla Fisica e sulla Metafisica di ciò che è, di ciò che siamo, neanche appare…
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