Scritto da © Hjeronimus - Gio, 05/10/2017 - 21:56
“L’arte della fuga”. Questo titolo basta da solo a rendere il senso di irraggiungibilità del tema che richiama. Cos’è l’arte, cos’è la fuga? Ahimè, domande insormontabili le cui risposte non possono che rifarsi alla tecnica, ossia alla “pelle” del soggetto. Una di tale risposte suona facile: l’arte della fuga è l’ultima, incommensurabile, inspiegabile opera di Johann Sebastian Bach. Il che di per sé comporta altro mistero, altre tenebre. Su quali strumenti, per esempio, doveva essere eseguita? E da uno solo o da un ensemble? Uno degli interpreti di quest’opera ha immaginato che fosse stata concepita per uno dei tanti strumenti alla cui creazione lo stesso Bach lavorava, ossia per un pianoforte, strumento non ancora realizzato, ma verso cui si orientava la ricerca di organisti e liutai contemporanei: Bach avrebbe in tal senso concepito un’opera per uno strumento che non esisteva ancora …
Uno degli arcani che avvolge in un’aura misterica la fuga e l’arte della fuga in particolare, è la matematica. È noto che l’idea stessa della fuga è costituita su base matematica e che il sistema delle corrispondenze delle voci sviluppa un’architettura sonora rigorosa e razionale, dialettica in una parola. E basta mettere sotto osservazione l’invenzione del codice inverso, per restare esterrefatti davanti alla creazione bachiana: una musica che può suonare sia in un senso, dall’inizio alla fine, sia nel senso inverso, dalla fine all’inizio, senza mai entrare in contraddizione.
Eppure, tutte queste grandezze così superne, così ultramondane, soggiacciono tuttavia a qualcosa di più originario e sovrumano ancora. E questo è il senso di tutta questa fatica. Il che non vuol dire perché Bach la compie: per lui, uomo della Germania del nord-est, che identifica lavoro e morale, lavoro e Weltanschauung, lavoro ed etica, rispondere è facile: questo è il suo lavoro, cui egli si dedica con rigore e solerzia e precisione. Per guadagnare e mantenere onestamente la propria numerosa famiglia. E questo è quanto. Ma il senso va oltre questa determinazione. Ciò che va delineando, cosciente o no, è una riscrittura dell’universo e tale universo dipinge una coscienza tragica di sé. Bach è un gigante tragico, come Euripide, come Shakespeare. E la tragedia che porta in cuore è analoga a quella leggendaria del pietismo quasi pre-romantico delle sue cantate. In tal guisa prefigura una sorta di pessimismo umanistico e umanitario assai prossimo a quello, per esempio, della “Ginestra” di Leopardi, ove si chiede a Dio di provar pietà, Lui, non noi, davanti al dolore dell’uomo di non farcela a non peccare, di non riuscire a essere retto. È il Dio a doverci concedere misericordia, perché noi non ne siamo capaci.
Così, davanti al nostro senso dell’udito, si spalanca una filosofia drammatica che sfocia sempre nel turbamento, nella commozione. E musicalmente, grandiosamente, il turbamento si transustanzia nella tredicesima diminuita, la commozione nell’accordo di minore. Perciò, perciò la tensione dell’ultima fuga di Bach si risolve sempre, arrampicandosi sui paurosi precipizi della tredicesima, e magari tenendovisi in bilico come un funambolo, nell’accorato accento minore, estinguendosi in una dolente vittoria. Vittoria della musica, sì, e della bellezza. Ma anche del fato tragico assegnato all’umanità. Quello di non potere mai essere innocenti.
Uno degli arcani che avvolge in un’aura misterica la fuga e l’arte della fuga in particolare, è la matematica. È noto che l’idea stessa della fuga è costituita su base matematica e che il sistema delle corrispondenze delle voci sviluppa un’architettura sonora rigorosa e razionale, dialettica in una parola. E basta mettere sotto osservazione l’invenzione del codice inverso, per restare esterrefatti davanti alla creazione bachiana: una musica che può suonare sia in un senso, dall’inizio alla fine, sia nel senso inverso, dalla fine all’inizio, senza mai entrare in contraddizione.
Eppure, tutte queste grandezze così superne, così ultramondane, soggiacciono tuttavia a qualcosa di più originario e sovrumano ancora. E questo è il senso di tutta questa fatica. Il che non vuol dire perché Bach la compie: per lui, uomo della Germania del nord-est, che identifica lavoro e morale, lavoro e Weltanschauung, lavoro ed etica, rispondere è facile: questo è il suo lavoro, cui egli si dedica con rigore e solerzia e precisione. Per guadagnare e mantenere onestamente la propria numerosa famiglia. E questo è quanto. Ma il senso va oltre questa determinazione. Ciò che va delineando, cosciente o no, è una riscrittura dell’universo e tale universo dipinge una coscienza tragica di sé. Bach è un gigante tragico, come Euripide, come Shakespeare. E la tragedia che porta in cuore è analoga a quella leggendaria del pietismo quasi pre-romantico delle sue cantate. In tal guisa prefigura una sorta di pessimismo umanistico e umanitario assai prossimo a quello, per esempio, della “Ginestra” di Leopardi, ove si chiede a Dio di provar pietà, Lui, non noi, davanti al dolore dell’uomo di non farcela a non peccare, di non riuscire a essere retto. È il Dio a doverci concedere misericordia, perché noi non ne siamo capaci.
Così, davanti al nostro senso dell’udito, si spalanca una filosofia drammatica che sfocia sempre nel turbamento, nella commozione. E musicalmente, grandiosamente, il turbamento si transustanzia nella tredicesima diminuita, la commozione nell’accordo di minore. Perciò, perciò la tensione dell’ultima fuga di Bach si risolve sempre, arrampicandosi sui paurosi precipizi della tredicesima, e magari tenendovisi in bilico come un funambolo, nell’accorato accento minore, estinguendosi in una dolente vittoria. Vittoria della musica, sì, e della bellezza. Ma anche del fato tragico assegnato all’umanità. Quello di non potere mai essere innocenti.
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