Scritto da © Hjeronimus - Lun, 17/07/2017 - 12:09
Immane tragedia attica nel Midwest, Kansas. Due emarginati escono di galera ed entrano nella fattoria di un farmer di successo, ai margini di un villaggio isolatissimo, nelle immense praterie a ridosso del fiume Arkansas. Legano l’intero nucleo famigliare e cercano la cassaforte. Ahimè, non c’è nessuna cassaforte, né contanti. Il ricco agricoltore rilascia solo assegni e tutti in famiglia girano solo con pochi spiccioli. Il “bottino” è 50 dollari, l’epilogo luttuoso è la strage di tutti e quattro i componenti della famiglia, padre, madre, figlio e figlia (niente testimoni!). I due pazzoidi se la squagliano poi per una breve latitanza – il loro destino è la forca e ne sembrano quasi consapevoli, o addirittura condiscendenti, almeno in uno di loro.
Siamo agli albori dei “favolosi” anni ’60 del Novecento. Il grande Truman Capote ci conduce dentro la carne e il sangue di questa faccenda, pagando di proprio (come ci racconta il film biografico di qualche anno fa) con una nevrosi che non sconterà mai più. Questo libro, “A sangue freddo”, porta la luttuosa grandezza di un Eschilo western, con un’epica concatenazione di testimonianze, allacciate dalla sapienza dolorosamente coinvolta, e scon-volta, dell’autore. E tra le innumerevoli grandezze di questa odissea, ci punge qui vaghezza di coglierne una in particolare, a fondamento della nostra riflessione. È Capote a recepire per primo il senso dei “futili motivi” della strage. Per primo intuisce che non si tratta di un particolare fuori-sistema, ma di un suo ganglio tumorale, ancora pressoché ignoto, ma che le cui ripercussioni si allargheranno via via fino ad assumere le odierne configurazioni (pseudo, o fanta-)politiche. Questi “futili motivi” non stanno nella esiguità del bottino, né nella crudele storditaggine degli assassini. Lo scrittore percepisce che alla base del misfatto c’è sì la vita “impossibile” dei due reietti, con le loro infanzie disperate, senza futuro. Ma capta in tale sociologia la fosca alienazione che ne segue. E questa è la rabbia, il rancore. Ecco dove scaturisce la brama di morte, eccola la fonte dell’odio. Gli esclusi divengono i “morti viventi” dell’era consumista, i fantasmi macilenti di un benessere che, per quanto diffuso, non li sfiora neanche; gli anticorpi assassini del corpo sano e ingiusto del pianeta delle scimmie arricchite …
Ora, per farsi un’idea di cosa siano quest’ira e questo rancore, basta sfogliare un qualsiasi giornale dei giorni nostri. Da questa settimana, per esempio, apprendiamo che qui da noi, in Piemonte, c’è stato un diverbio per il traffico tra un motociclista e un pulmino. Il motociclista andandosene, ha quindi sferrato un pugno rabbioso contro il vetro del pulmino e così il conducente di quest’ultimo si è messo ad inseguirlo, infrangendo ogni divieto. Lo ha raggiunto a un incrocio e lo ha quindi schiacciato contro il guard-rail. La giovane seduta sul sellino alle spalle del motociclista è morta, e lui è ricoverato in gravi condizioni. Il pazzo alla guida del pulmino è in galera e speriamo ci marcisca dentro. In Egitto invece uno dei soliti paranoici falliti ha fatto irruzione in una spiaggia e ha accoltellato a morte due donne tedesche, prima di essere bloccato dalla polizia. Ogni giorno, ogni giorno la rabbia di un qualche scimunito/fallito piomba sui nostri Media, recando angoscia e sconcerto. E noi, spettatori allibiti, ci chiediamo: perché, perché succede? Perché morire senza neanche un distintivo, un “marchio di fabbrica”, una firma che almeno spieghi e illumini sulla inutilità della morte e perciò stesso della vita …?
Perché la morte senza senso, la morte inutile è quella che atterrisce di più, mentre la mente ottusa che la causa ci lascia inerti, incapaci di abbassarci all’infimo livello dei trogloditi che la detengono. Ma la rabbia insensata, ci sembra di capire, è figlia delle transizioni “calme” fra guerra e guerra. E in tal senso, è figlia della pulsione di morte che, nonostante qualsiasi barriera d’autocoscienza, tende fatalmente a riaffacciarsi, sotto mutate spoglie, sul presente. Ogni mossa appare inutile contro la pulsione di morte, o coazione a ripetere. Essa cambia pelle e si ricompatta sotto forma di un’ira irrazionale che può attaccarsi a qualsiasi scusa pur di assolvere ai suoi satanici impulsi. Dietro il razzismo, l’intolleranza, il terrorismo, alita il medesimo demone: il rancore uguale degli “inferiori” di ogni risma, di tutto il catalogo dei peccatori, o dei vinti: i falliti, gli ignavi, gli invidiosi, gli emarginati; in una parola, gli esclusi, sia come individui che come comunità (per esempio, i Palestinesi). Ma oltre la rabbia di costoro fa’ capolino quell’”altra cosa”, la pulsione di morte, la necessità paranoica di una “fine di tutto” che ponga finalmente la Storia in uno stato di requiem aeternam, qualcosa che quieti la loro ansia disperata e faccia finire il gioco al massacro, ossia la vita, in cui sono invischiati da perdenti per l’eternità.
Siamo agli albori dei “favolosi” anni ’60 del Novecento. Il grande Truman Capote ci conduce dentro la carne e il sangue di questa faccenda, pagando di proprio (come ci racconta il film biografico di qualche anno fa) con una nevrosi che non sconterà mai più. Questo libro, “A sangue freddo”, porta la luttuosa grandezza di un Eschilo western, con un’epica concatenazione di testimonianze, allacciate dalla sapienza dolorosamente coinvolta, e scon-volta, dell’autore. E tra le innumerevoli grandezze di questa odissea, ci punge qui vaghezza di coglierne una in particolare, a fondamento della nostra riflessione. È Capote a recepire per primo il senso dei “futili motivi” della strage. Per primo intuisce che non si tratta di un particolare fuori-sistema, ma di un suo ganglio tumorale, ancora pressoché ignoto, ma che le cui ripercussioni si allargheranno via via fino ad assumere le odierne configurazioni (pseudo, o fanta-)politiche. Questi “futili motivi” non stanno nella esiguità del bottino, né nella crudele storditaggine degli assassini. Lo scrittore percepisce che alla base del misfatto c’è sì la vita “impossibile” dei due reietti, con le loro infanzie disperate, senza futuro. Ma capta in tale sociologia la fosca alienazione che ne segue. E questa è la rabbia, il rancore. Ecco dove scaturisce la brama di morte, eccola la fonte dell’odio. Gli esclusi divengono i “morti viventi” dell’era consumista, i fantasmi macilenti di un benessere che, per quanto diffuso, non li sfiora neanche; gli anticorpi assassini del corpo sano e ingiusto del pianeta delle scimmie arricchite …
Ora, per farsi un’idea di cosa siano quest’ira e questo rancore, basta sfogliare un qualsiasi giornale dei giorni nostri. Da questa settimana, per esempio, apprendiamo che qui da noi, in Piemonte, c’è stato un diverbio per il traffico tra un motociclista e un pulmino. Il motociclista andandosene, ha quindi sferrato un pugno rabbioso contro il vetro del pulmino e così il conducente di quest’ultimo si è messo ad inseguirlo, infrangendo ogni divieto. Lo ha raggiunto a un incrocio e lo ha quindi schiacciato contro il guard-rail. La giovane seduta sul sellino alle spalle del motociclista è morta, e lui è ricoverato in gravi condizioni. Il pazzo alla guida del pulmino è in galera e speriamo ci marcisca dentro. In Egitto invece uno dei soliti paranoici falliti ha fatto irruzione in una spiaggia e ha accoltellato a morte due donne tedesche, prima di essere bloccato dalla polizia. Ogni giorno, ogni giorno la rabbia di un qualche scimunito/fallito piomba sui nostri Media, recando angoscia e sconcerto. E noi, spettatori allibiti, ci chiediamo: perché, perché succede? Perché morire senza neanche un distintivo, un “marchio di fabbrica”, una firma che almeno spieghi e illumini sulla inutilità della morte e perciò stesso della vita …?
Perché la morte senza senso, la morte inutile è quella che atterrisce di più, mentre la mente ottusa che la causa ci lascia inerti, incapaci di abbassarci all’infimo livello dei trogloditi che la detengono. Ma la rabbia insensata, ci sembra di capire, è figlia delle transizioni “calme” fra guerra e guerra. E in tal senso, è figlia della pulsione di morte che, nonostante qualsiasi barriera d’autocoscienza, tende fatalmente a riaffacciarsi, sotto mutate spoglie, sul presente. Ogni mossa appare inutile contro la pulsione di morte, o coazione a ripetere. Essa cambia pelle e si ricompatta sotto forma di un’ira irrazionale che può attaccarsi a qualsiasi scusa pur di assolvere ai suoi satanici impulsi. Dietro il razzismo, l’intolleranza, il terrorismo, alita il medesimo demone: il rancore uguale degli “inferiori” di ogni risma, di tutto il catalogo dei peccatori, o dei vinti: i falliti, gli ignavi, gli invidiosi, gli emarginati; in una parola, gli esclusi, sia come individui che come comunità (per esempio, i Palestinesi). Ma oltre la rabbia di costoro fa’ capolino quell’”altra cosa”, la pulsione di morte, la necessità paranoica di una “fine di tutto” che ponga finalmente la Storia in uno stato di requiem aeternam, qualcosa che quieti la loro ansia disperata e faccia finire il gioco al massacro, ossia la vita, in cui sono invischiati da perdenti per l’eternità.
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