Scritto da © Giuseppina Iannello - Lun, 29/01/2018 - 17:51
Nel rispetto del programma ministeriale, cominciavo la mia prima lezione, nella classe IIIa.
“Ragazzi,” dissi, “oggi vi parlerò del rapporto tra la poesia trovadorica e quella provenzale.
Dunque, è indispensabile che sappiate che entrambe hanno una comune origine; si differenziano solamente per due aspetti: l'una appartiene al popolo, l'altra alla cavalleria. Facevo notare, mettendo due brani a confronto, come il tema di fondo, sia pure nelle diverse sfaccettature fosse univoco, e come varie e differenti fossero le gesta dei cavalieri.” I miei studenti seguivano con composto interesse. Al termine della lezione, assegnavo loro, un brano da volgere in Italiano, tratto da “I Cavalieri della Tavola Rotonda”. Furono zelanti e, in poco tempo, ognuno consegnava il proprio testo. Il primo a consegnare il proprio testo era Sesturzi. Gli chiesi: “Sei sicuro d'essere stato esauriente?” Rispondeva: “Professore, avendo recepito, quanto Ella ha detto, penso di non avere ombra di dubbio.” Gli feci una carezza, ma mi sentii all'istante colpito da un sorriso di sberleffo. Sentivo l'amarezza di chi commette una gaffe. Cercai di non pensarci... Però un presentimento, mi avvisava che quel tale, seduto alla mia destra, avrebbe violentato un sano gesto, mettendo a dura prova la mia pazienza. Non mi ero sbagliato; una mattina, lo vidi entrare in aula di soppiatto ed in anticipo; entravo, facendogli supporre di voler prendere un quaderno all'armadietto; egli mi guardava in modo provocatorio; io facevo finta di non vederlo... Infine, facendosi persuaso, che io non lo notavo, mi si rivolse e disse quello che aveva argutamente, premeditato: “Professore, ho un gran male alle gambe; sono venuto presto stamattina, perché ho pensato ch'ella può aiutarmi, facendomi un massaggio, dal momento che è bravo in molte cose.” Restai per un attimo, senza parole... E fu la Provvidenza a non farmi perdere le staffe: “Gervasio! Come si permette! Da questo momento, lei è espulso dalla scuola!”
Il giorno dopo, Gervasio, presentava al Preside, le dimissioni, adducendo la motivazione, al misterioso dolore alle gambe. Il preside mi chiamava, in disparte: “Professore, che cosa ne pensa di questa domanda? Il ragazzo, non sta bene?”
“Sta bene” rispondevo “ma quel che afferma non è la verità. La motivazione è un'altra.” E gli raccontavo quanto era accaduto. “Sta bene” disse il preside, “mi dispiace solo, che lei abbia avuto questa noia, a pochi giorni dalla scuola; mi ero accorto che qualcosa non andava già dalla firma dei suoi genitori.” Ci recammo in presidenza; chiamato Gervasio, il capo d'istituto lo apostrofava: “Adesso, ci dirai la verità, quanto alla firma, lo so che è falsa; perché hai molestato il Professore?” Gervasio si strinse sulle spalle, dicendo di non sapere niente. Ma dietro insistenza, pena l'immediato invito ai genitori a presentarsi con urgenza, rispose: “Ebbene, sì, ho detto quelle cose, perché ero geloso delle attenzioni, che il Professore ha per Sestursi.” “Non è possibile”, rispose il preside, “conosco il professore Pascoli, e so che le attenzioni, egli le riserva a tutti,” a quel punto Gervasio, non sapeva come divincolarsi da tutto ciò che ragionevolmente, gli faceva capire di essere in errore. Dopo aver pronunciato qualche frase incomprensibile, si fece forza e disse:”Signori, era da tempo che mi ingegnavo a trovare un pretesto per essere estromesso definitivamente dalla scuola. Ero stanco di sentir pronunciare, da mio padre, sempre, la stessa cosa: se sei stanco, ripeterai; non ci sono attenuanti.”
Mi impietosivo, pensando che forse era stata la stanchezza, ad indurlo a quello stratagemma.
Gli dissi: “Se è stata la stanchezza a farti fuorviare, io ti perdono e ti riammetto in classe; ma mi devi promettere d'essere buono.” Il Preside aggiungeva: “Ora, tu, al cospetto del Professore, ti inginocchi, e gli chiedi perdono.”
Gervasio ci guardò, senza pudore; poi disse: “Questo no, non mi sta bene, altrimenti, il lavoro preparato, è stato vano”.
Quella risposta, noi ce l'aspettavamo, eppure avevamo sperato di sbagliarci. “Se è così,” il preside, diceva, “stai pur seduto; io, intanto, prendo nota;” intingendo la penna il capo d'istituto passava agli atti, quanto era accaduto.
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