Scritto da © Giuseppina Iannello - Lun, 05/02/2018 - 16:02
La classe Iª D, sezione maschile, mi accoglieva in modo garbato. Dopo la presentazione personale e l'augurio di un proficuo anno accademico, facevo l'appello. Ognuno, con compostezza si alzava, dicendo il proprio nome. Soltanto uno studente, Romano Parnasio, quando feci il suo nome, si lasciò andare una esclamazione: “Evviva!” Mi avvicinai egli dissi: “Ragazzino, mi vuoi spiegare?”
Rispose: ”Domando scusa, Professore, mi son lasciato prendere dall'emozione...” Gli chiedevo: “Vuoi spiegarci per qual motivo, sei emozionato?”
“Sono mortificato,” rispondeva “Non vedevamo l'ora che lei venisse, perché, vede, il supplente che avevamo, era stanco di noi e ci diceva: cosa mi può importare degli errori che fate... Non siete alunni miei.” Gli chiesi: “Lo sapevate che il Professore Rao, non sarebbe venuto?”
“Sicuro” mi rispose “e devo dirle che eravamo contenti perché ho sentito in giro, qualche commento.”
Lo spronavo a parlare … E mi diceva: “Dicevano i suoi studenti che si atteggiasse a malato per farsi compatire, ma che la sua malattia, non era in vero, che un male immaginario.” Mi infastidii... Temevo d'aver dato a quel ragazzo troppo filo... Dissi con gravità, rivolto a tutti: “Quella che sto per darvi è un a brutta notizia: il professore Rao sta molto male; egli è malato, e seriamente. I suoi allievi sono colpevoli delle illazioni che hanno alimentato le voci e fomentato il disimpegno. Tutte queste cose non hanno fatto altro che recare dispiacere a un insigne docente che, invece, ai suoi studenti ha voluto e vuole molto bene.”
“Il professore Rao è malato; e voi, cosa mi dite?” Sentii alzarsi, tra le file un mormorio; alcuni dicevano: “Poverino...” Altri facevano un sorrisino.
Senza pensar due volte, i ragazzino, si alzava e con l'aria preoccupata, mi diceva: “Professore, voglia il cielo che non sia quella tremenda malattia... Sa mio fratello che è in terza, è stato l'anno scorso alunno suo.” Gli rispondevo, con aria riprovevole: “Parnasio, vi ho appena dato una notizia spiacevole... La tua domanda è indelicata.”
“Non dovevo” rispose, “chiedo perdono al Professore Rao ed anch'Ella, mi perdoni, Professore.”
Rispondevo: “Parnasio, noi ti perdoniamo... Ma sei stato impulsivo e anche scorretto; vieni costì con l'eserciziario e il tuo quaderno.” Mi consegnava entrambi, restando a capo chino. Sul quaderno scrivevo: “Oggi, 10 di Ottobre, il Professore, ti ha rimproverato per l'impulsività, inerente al tuo argomentare; ti assegna alla pagina dieci, diciotto frasi da tradurre.” Romano ringraziava, rinfrancato per le attenzioni...... Ed io, paternamente, quel figliuolo, l'avrei stretto al mio cuore.
La classe III^
Mi trovai così bene, nel mio nuovo ambiente di lavoro, da temer di sognare. Stavo pensando a quella classe che il professore Rao non aveva voluto perché, a suo avviso, quelle ragazzine, eran tutt'altro che birichine e petulanti... Erano, a suo avviso, introverse e malpensanti. La classe che prescelse, fu quella che l'anno precedente, era stata assegnata ad una supplente. Ma ora, la docente, avendo superato la prova per il passaggio al ruolo, riprendeva la propria classe. La mia, era dunque a tutti gli effetti, la non invidiata, III^ D.
Ero immerso nei miei pensieri ed un po' preoccupato, quando il Preside, mi chiamava... In parlatorio, mi disse: “Professore, l'ho convocata per darle alcune informazioni preliminari, inerenti alla sua classe III^ femminile che conoscerà domani. Intuisco cosa, le avranno detto... Ma vede... bisogna farsene una ragione: su diciotto, ben nove, e quindi la metà, hanno una doppia nazionalità, e parlano due lingue: il Francese o, il Rumeno, e l'Italiano. Non sono introverse per ordire malfatti, ma perché risentono della mancanza della figura paterna.
I loro rispettivi genitori lavorano, ognuno nel paese d'origine; le malcapitate, risiedono, soltanto con la madre, qualcuna, come nel caso della Ponzo, con la sorella... Non sono avvezze a contatti con persone di sesso opposto, ragion per cui nei primi tempi potrà loro apparire provocatorio avere un'intesa affettiva, con persone, di sesso opposto al loro.” Uscivo dal parlatorio, un po' stravolto: ”Chissà,” pensavo, “come si comporteranno... Che idea si faranno del professore, avendo sempre avuto delle professoresse...”
L'indomani, trovai la porta chiusa; pensando che ci fosse l'insegnante dell'ora precedente, bussavo; qualcuno disse: ”Avanti...” La porta sembrò aprirsi da sola. Al mio ingresso si alzavano diciotto fanciulle, quali rose selvagge...
Tra quelle rose di una beltà acerba, non disdegnose delle proprie spine, una, m'attrasse per lo sguardo dolce... Dissi alla classe: “C'è un'aria frizzante...” E lei si volse a chiuder la finestra.
Sentii la chioma del color del grano, carezzare il mio viso. Fu proprio lei la prima, alla quale volgevo una domanda: “Come ti chiami?” Mi rispondeva con dolcezza: ”Alida,” dopo essersi alzata. “Sì,” rispondevo, come soprappensiero.... “E il tuo cognome?”
Rialzandosi, rispose: “Simonelli.” E abbassava lo sguardo, vergognosa, d'aver destato la mia attenzione. ”Puoi sedere.” Sentivo espandersi, come in un fruscio, un sottil malignare.
Aprivo il mio registro; mi accingevo a leggere quei nomi, prima da solo, per pronunciarli, poi correttamente e con disinvoltura. Lessi il primo cognome mentalmente, ma non riuscivo a capire il nome; “è Francesca?...” mi dissi impercettibilmente, lo pronunciavo.
Vidi fissarmi il volto di una alunna, che quasi nulla aveva della fanciulla.
Senza alzarsi, mi disse: “Ha letto bene perché quello che ha appena pronunciato, è il mio nome.” Notando, così grave l'espressione, le dicevo: “Perché hai quell'aria? Qualcosa ti preoccupa.” Mi rispondeva, sdegnosa, restando al proprio posto: “Queste, se non le dispiace, son cose personali.” Sentii una stretta... e forse fu una mano, a impedire al mio cuore paterno, uno schiaffetto.
La prima gaffa a scuola, mi diceva, d'avere un autorevole contegno. Chiamavo la bidella e le dicevo di portarmi l'incipit, per chi non lo sapesse, un'assicella. Comparve sulla soglia, signora, dall'espressione di dolce fanciulla, che chiamavan l'ancella per i modi. “Professore, mi dica...”
Le dicevo: “Signora, mi perdoni... Può portarmi l'icipit?”
“Volentieri,” rispose, “glielo porto...” Ed era sì palese, il suo rossore... Che sentivo il dovere di spiegare...
“È una asticella, con un campanello, simile a un incensiere, che nel suo interno porta dell'incenso.” Le lessi in volto un po' di meraviglia, ma accennando a un sorriso, disse: “Vado.” Da lì, a breve, la vidi ritornare... Ed era mortificata; mi guardò con sgomento... E chinò il capo... “Professore, mi spiace, è solo un grammo.” Cercava di spiegarmi, ma la voce era tremante...
Le dissi con dolcezza: ”Che succede... Non le faccia soffrir queste ragazze... E quanto a me... La prego di capirmi...”
Si fece forza, e disse: “A fine di lezione, le racconto...”
Le dicevo di fronte, alle ragazze: “Signora, non ci pensi... Resti ancora un momento...” Traevo dalla borsa l'acqua santa, che tenevo con me per ogni inizio; “Signora, anche per lei, sia un nuovo giorno.” Mi rivolsi alla classe; il tono era solenne: “In piedi......... Facciamo il segno della Croce...”
L'appello è stato fatto; inizia la lezione.
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