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Una mia lettura della "Cognizione del dolore" di Carlo Emilio Gadda.

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Occorre certamente una buona dose di audacia per accostarsi a un libro come La Cognizione del dolore. E sicuramente un senso alto e profondo della letteratura per misurarsi con un autore complesso e geniale come Gadda.
Molto proficuamente, Gianfranco Contini lasciò cadere su Gadda alcune pagine che sono un esempio di critica letteraria tra i più pregevoli e sublimi, frutto senz’altro di un incontro tra un’opera letteraria di altissimo livello e un’altrettanto inusitata capacità di giudizio e di analisi che travalica il consueto criticare.
Seppe vedere, Contini, in Gadda, il riassumersi e il ricomporsi, sotto una preziosa cassa di risonanza, di tutta una pregevole genìa letteraria novecentesca, che includeva i Proust, i Joice, i Musil, i Pasolini, i Fenoglio e andava risalendo ben oltre, fino a Flaubert, al Parini, al Manzoni, a Dante.
Noi, dal canto nostro, non possediamo che deboli strumenti e il filo continiano non ci azzardiamo neanche a sfiorarlo. Magari proviamo, da un’angolazione puramente emotiva (cioè da una sensibilità pura ed ingenua di semplici lettori ) a tirare le somme del nostro incontro con la cognizione consci d’esprimere un giudizio che è poca cosa di fronte alla vastità dell’opera.
Per prima cosa sarebbe da domandarsi chi è Gadda.
Un architetto inquieto ed estroso della lingua italiana, forse. Un letterato còlto e divertito, che versa inchiostri sulla carta come fossero coriandoli d’oro staccati da un carnevale sospeso nel cielo (cielo color vinaccio, intrugliato di nuvole e silenzi che piegano verso il mare). Un architetto che indossa una maschera pallida d’ingegnere a cui fa il verso lo scrittore, come sentendo un dolore bellissimo cadergli tutto nella penna. Un architetto che a domandargli il perché di tanta arguzia e ricercatezza da primeggiare tra i barocchi scrittori, egli, che scrittore lo era e in un senso tutto suo, rispondeva col solito, disarmante garbo, con la solita punta d’ironia: “Gadda non è barocco. Barocco è il m ondo”.
Il mondo circonfuso di bellezza e di disperazione, vorremmo aggiungere. 
Il mondo dei nomi, dei verbi, delle allitterazioni e dei chiasmi, dei vernacoli scomposti e rubicondi, delle cose che accadono al di sopra e al di sotto delle parole. Il mondo dei segreti svelati in una piega di luce (luce divina che gli entrava dritto nell’intelligenza).
Ecco perché accostarsi a un libro come la cognizione diventa un esercizio difficile. Perché ha il dono della perfezione questo libro. Questo plesso di immagini e di immaginazioni stravolte. Quest’acquazzone di lingue siderali, marine, sotterranee, primigenie ed eterne.
Con la cognizione, Gadda, ha lasciato alla letteratura universale una goccia di splendore. Darne un resoconto è una cosa che ti fa piccolissimo. Ti inietta una dose di soggezione e di rispetto. Ti impaurisce.
Il proliferare delle sue istantanee (che emergono dal fondo frastagliato della vita e si trastullano i n gorghi di voci assonànti e rotonde, come riandando alla sorgente stessa della lingua e del pensiero); l’ordine maniacale dei suoi scatti etimologici, il suo plurilinguismo, la sua sintassi meccanica e macchinosa, il suo introspezionismo e il suo naturalismo, galleggiano sotto i nostri occhi come schiume di mare irreprensibili. Immagini mai concluse e strette in una loro precisa morsa d’infinito. 
Nel turbinìo immaginifico del suo guardare e decifrare, Gadda ci mostra la realtà nei suoi minimi aspetti: la fa toccare, odorare, sentire. Una realtà gravida e greve. Inchiodata a se stessa e su se stessa avvolta, stretta attorno a una finzione livida e lirica. Le sue parole sembrano esplodere in eccessi d’ira; organizzarsi come costruzioni perfette su un paesaggio saturo, su una grammatica che ha quasi il sospetto d’essere pura astrazione; sembrano erompere da un guazzabuglio frenetico, da una realtà sgretolata e nervosa e m ettersi in posa così, atteggiate e avviluppate nel loro fluire preciso e disinvolto, quasi vibranti del virtuosismo che le ha spinte a nascere, quasi paghe della loro carica emotiva. E tu stai li, ignaro ingenuo lettore, a palpare quelle parole, a tastarle nel loro procedere, ad avvertirne tutta la loro eleganza e precisione, con addosso tutto il sapore muto e fulgido, melodico e folle, che solo la buona letteratura sa lasciare, quella dei Joice, dei Proust, dei Faulkner, dei Calvino, dei Borges, degli Emingway, dei pochi numi cui la nostra riconoscenza avverte di tanto in tanto la necessità d’esplodere in ringraziamenti e plausi, magari anche con se stessi, a chiusura di libro.

In un paese immaginario del Sudamerica (Lukones, nel Serruchòn, arrondimiento che va da Prado a Iglesia e da Pastufrazio a Terepàttola, e investe placidi laghi e alti colli, tra Maradagàl e Parapagàl) si racconta la triste vicenda di un uomo, Gonzalo Pirobutirro (nel quale alcuni hanno intraveduto il riflesso, a tinte fosche e evanescenti, ingannevoli forse, di una proiezione evocativamente autobiografica).
Il lettore dovrà attendere almeno una quarantina di pagine prima di incontrare Gonzalo. E ciò avverrà per le mani d’un medico che, discendendo (o salendo) una stradaccia tutta ciottoli, (tra villuole parafulminate e ispidate in deteriore liberty, col vento in bandiera e bastoncello a misurar robinie e pensieri) con l’aiuto di una Beppa (o di una Peppa o di una Pina) ce lo preannuncerà.
Fino allora, è tutta una descrizione laconica e lirica, (divertita e arzigogolata) della realtà topografica e antropologica del luogo. Un luogo che, sebbene immaginario, ha dentro tutto il tritume e il comico, tutto il disgusto estetico e sociale, tutta la soavità della Brianza (terra di molto conosciuta da Gadda). Un paesaggio edilizio ed umano quasi meritevoli di riluttanza , quasi, come se a guardarlo e a descriverlo fossero gli occhi e le parole di un misantropo che odia il mondo intero perché ancor prima e innanzitutto, odia accanitamente se stesso.
In effetti, si ha la sensazione che Gonzalo, prima ancora di presentarsi a noi, per mano del suo autore, ci presenti egli stesso la realtà, ordita a trame complesse e denigranti, nella quale è impigliato. Nel vortice negletto di questa trama, Gonzalo, si tira dentro il padre (emblematica la scena del ritratto calpestato) e la madre, vittima sacrificale quest’ultima, dei suoi rimuginamenti nevrotici e del suo angosciato dolore. E lo fa con cura, quasi con abnegazione, come se volesse ricomporre un gomitolo sfilacciato delle sue angosce infantili, dei suoi privamenti e delle sue afflizioni in una rinnovata disperazione verso ogni aspetto della vita.
Sulla patina abrupta di questo dramma, pietra arrotondata dall’intelligenza, ha levigato stupendamente l’ironia , che Gadda adegua a involucro di tutto.
Il timore borghese della perdita (affettiva e materiale) gli inganni (quelli si) barocchi, dei sistemi relazionali e comunicativi, (impiastrellati nelle ellissi nominali e prònominali dei Peònes, dei Pedri, dei Pasquali, , delle Peppe, delle Pine, delle Giuseppine, degli Io moltiplicati e accavallati come trompe-l’oeil in un semicerchio absidale del seicento); tutto il dolore imperituro dei muri e dei volti, il dolore subliminale degli uomini soli, (umori che si espandono come vaniloqui di campane) tutta la leggerezza delle libellule spensierate, (che volano sordide nelle estati diafane senza vento e senza recinti) si srotola e si spappola tra un parafulmine e l’altro durante un temporale che dura sette pagine e gioca come un flipper impazzito.
Non si può raccontare quel che vibrava sotto la punta della sua penna. Di quali attriti veramente abbia vissuto la sua creatività. Ironia, rabbia, disperazione, dolore. Forse solo piacere. Piacere di scrivere come un Dio. 
A noi, se la fortuna ci aiuta, resta solo di incanalarci in qualche piega del suo genio. Di sentire in qualche modo anche solo qualcuna delle sue corde vibrare.
Andrebbe già bene un’illusione.
Buona lettura
E buon divertimento
Giovanni Perri
 

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