Scritto da © Giovanni Perri - Ven, 22/04/2016 - 07:33
Chi abbia familiarità con gli orditi tipicamente fluidi ed evanescenti dell’Antonio Ciavolino poeta, la gamma meravigliosa di intuizioni liriche a cui abitualmente inclina il misterioso ondeggiare d’un verso garrulo e polito; la maniera silvestre d’incedere, tuttavia, tra le figure altrimenti stratificate del vero e del possibile, come in un sogno pieno di imbocchi, traverse, nodi, un arabesco d’ombre in musica, troverà in questi brevi componimenti in prosa la medesima attitudine alla riflessione che il poeta gira in forme armonicamente tese, accordate, svelate vorrei dire, in un guizzo improvviso di Stupore, forma tra le forme da lui predilette per dire la vita e il suo primissimo vizio, aurorale, augurale, salvifico.
La razionalità puramente al servizio d’una lingua duttile, ma piana, modulare, organica, espressiva già essa stessa rilucente d’ori e gemme, gli riesce puramente novella da un immaginario colmo di sapienza non solo libraria, bensì da un campionario di segreti e dall’immaginifico ch’egli ricava negli arcani pensieri della terra, che è terra d’uomini al di qua d’ogni soglia, nelle maglie del tempo vergine e folle, visto e vissuto, più ancora carpito, ovunque risieda una trama.
Ciavolino è poeta del meraviglioso e questi brevi esercizi narrativi attingono alla stessa fonte; pare quasi, anzi, che ne espandano i confini, diramandoli nella purezza d’un linguaggio chiaro e seducente, semplice, se possibile, ma in grado di fluire profondissime variabili morali e filosofiche, vale a dire ampiamente letterarie. Così fulminanti e rapprese appaiono le scene via via concepite e rappresentate, da contenere letture extra testuali, ultramondane, forse finanche, create per meglio ingerire una loro intima verità. Che è sempre plurima e improbabile e che egli è in grado d’accendere col più alto senso del vario del vasto e del transuente, com’è appunto la vita, nelle sue infinite possibilità di lettura.
Giovanni Perri
Chi abbia familiarità con gli orditi tipicamente fluidi ed evanescenti dell’Antonio Ciavolino poeta, la gamma meravigliosa di intuizioni liriche a cui abitualmente inclina il misterioso ondeggiare d’un verso garrulo e polito; la maniera silvestre d’incedere, tuttavia, tra le figure altrimenti stratificate del vero e del possibile, come in un sogno pieno di imbocchi, traverse, nodi, un arabesco d’ombre in musica, troverà in questi brevi componimenti in prosa la medesima attitudine alla riflessione che il poeta gira in forme armonicamente tese, accordate, svelate vorrei dire, in un guizzo improvviso di Stupore, forma tra le forme da lui predilette per dire la vita e il suo primissimo vizio, aurorale, augurale, salvifico.
La razionalità puramente al servizio d’una lingua duttile, ma piana, modulare, organica, espressiva già essa stessa rilucente d’ori e gemme, gli riesce puramente novella da un immaginario colmo di sapienza non solo libraria, bensì da un campionario di segreti e dall’immaginifico ch’egli ricava negli arcani pensieri della terra, che è terra d’uomini al di qua d’ogni soglia, nelle maglie del tempo vergine e folle, visto e vissuto, più ancora carpito, ovunque risieda una trama.
Ciavolino è poeta del meraviglioso e questi brevi esercizi narrativi attingono alla stessa fonte; pare quasi, anzi, che ne espandano i confini, diramandoli nella purezza d’un linguaggio chiaro e seducente, semplice, se possibile, ma in grado di fluire profondissime variabili morali e filosofiche, vale a dire ampiamente letterarie. Così fulminanti e rapprese appaiono le scene via via concepite e rappresentate, da contenere letture extra testuali, ultramondane, forse finanche, create per meglio ingerire una loro intima verità. Che è sempre plurima e improbabile e che egli è in grado d’accendere col più alto senso del vario del vasto e del transuente, com’è appunto la vita, nelle sue infinite possibilità di lettura.
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