Scritto da © Giovanni Perri - Mer, 03/02/2016 - 09:37
(sulla pittura fiamminga)
Con una nota ai “CAMBIATORI DI VALUTE” di Quentin Metsys
Con tutta probabilità, c’è un momento nella storia dell’arte occidentale, in cui i pittori hanno creduto, quasi folgorati da un’intuizione, che si poteva, dipingendo, fare concreta esperienza visiva. Ovvero, distillare dalla realtà uno ad uno tutti gli elementi che la compongono, facendone elencazione, per ricreare sotto forma di dipinto la complessa onnicomprensività di uno sguardo.
L’ambiente diviene contenitore di una messe di oggetti che non sono più complementi residuali dello spazio, ma primarie e necessarie presenze di un logos visivo che definisce, per rimandi e simbologie, l’essenzialità di un luogo. Specularità concettuale e propriamente tecnica della pittura che si assumeva il compito, invero oneroso e irrealizzabile per la scultura, di essere tra le arti figurative, quella più idonea, potenzialmente e concretamente, a rappresentare la vita. Questa, lungi dal definirsi esclusiva degli uomini, si concretizzava nel mondo degli oggetti ormai assurti per gemmazione, per concatenazione diretta, a strumenti che acquisivano la misura di un’esistenza autonoma.
Siamo al principio del quattrocento, nelle Fiandre. La pittura europea, già grazie ai maestri italiani si era lasciata alle spalle, due secoli or sono quanto di bizantino rimaneva ancora nelle pitture romaniche. Col gotico sarebbe avvenuto il miracolo. Da Cimabue ai Lorenzetti, il mondo, financo il mondo circoscritto dei bizantini, ormai emancipati dalle strette di una pittura ieratica e superficiale (ma non ancora tuttavia innovata per intero) poteva finalmente sentirsi libero e rappresentabile. Si tornerà indietro di molti secoli obliterando di colpo il medioevo che pure aveva rappresentato, fin dentro le sue secche culturali, la lunga e faticosa gestazione di una rinascita che ora poteva finalmente dirsi compiuta.
I pittori fiamminghi già italianizzati –sebbene possa dirsi il contrario di molti grandi pittori italiani da Antonello da Messina a Piero Della Francesca, su, su, fino al Foppa, al Lotto, al Parmigianino, al Caravaggio- o magari italianizzati a metà (non avendo assimilato in maniera totale la disciplina che veniva dagli studi sulla prospettiva) si trovarono a imboccare una via che era altrettanto significativa dei progressi e delle innovazioni della pittura come prima tra le arti figurative la più consona a definire e riprodurre la realtà umana e materiale: la vita nella sua accezione più ampia.
Dipingere dei personaggi in un interno significava coglierne l’umanità che diramava dai capelli, dalle tegole sotto i piedi, dagli specchi convessi, dai lampadari, fin dentro le finestre dalle quali si miniaturizzava l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande del mondo. La sensibilità delle espressioni evaporava e si trasferiva dai volti cinerei o paffuti e terragni, volti finalmente “difettosi” di realismo puro, alla viscosità dei drappi e delle sete, alla fredda materialità trasparente dei vetri e degli specchi, alla lucentezza metallica degli ori. Ogni cosa viveva di vita propria: i i tappeti, i libri coricati sui davanzali o messi in tralice, i piatti d’argento, le candele, le perle, le gemme, le parrucche, le monete, gli occhiali. Era l’aprirsi ormai disinibito, forse disincantato, alla spettacolarità del quotidiano. Il dischiudersi dell’occhio alla traboccanza degli oggetti ormai democraticamente ammessi a vestire la scena.
In effetti erano più che maturi i tempi, in quel pezzo di terra fiamminga tra quattro e cinquecento, proprio mentre il rinascimento italiano da Masaccio a Raffaello esplodeva come una fiamma immaginifica nel cielo dell’Europa, per far cantare la pittura a quel modo.
In questo contesto Quintin Metsys, al principio del secolo decimo sesto, può figurare forse come un tardo nepote di quel Van Eyck che agli inizi del quattrocento raccoglieva nella sua esperienza artistica questa elaborata innovazione. Pure, come un emulo che di genio ne ha del proprio, saprà toccare, rielaborando e personalizzando il verso, note non meno sublimi e geniali che l’antico maestro. In lui minuzie a espandersi, ritratti di fede e calcoli viravano a margine d’un quasi grottesco sentire.
I Cambiatori di valute è un’opera bellissima non solo per le qualità intrinseche della composizione (qualità di fattura, di resa, di disegno, di colore) ma per il nugolo di significati (psicologici, sociologici, storici, economici) che si addensano nell’iconografia. Qualità culturali che esprimono la cifra, stigmatizzata nella complessità dei rimandi e delle note, di un momento storico preciso, di una precisa e inequivocabile attualità. Il mestiere vacilla dagli occhi, dalla fragilità ossea delle mani, dal respiro dei colori cupi quasi oscuri dentro cui si muovono i due personaggi; dall’ombra del profitto che emana dal loro silenzio, meticoloso silenzio della borghesia affaristica di Fiandra, esemplarmente piegata, quasi assorta dentro una misura misteriosa di devozione profana.
Giovanni Perri
Con una nota ai “CAMBIATORI DI VALUTE” di Quentin Metsys
Con tutta probabilità, c’è un momento nella storia dell’arte occidentale, in cui i pittori hanno creduto, quasi folgorati da un’intuizione, che si poteva, dipingendo, fare concreta esperienza visiva. Ovvero, distillare dalla realtà uno ad uno tutti gli elementi che la compongono, facendone elencazione, per ricreare sotto forma di dipinto la complessa onnicomprensività di uno sguardo.
L’ambiente diviene contenitore di una messe di oggetti che non sono più complementi residuali dello spazio, ma primarie e necessarie presenze di un logos visivo che definisce, per rimandi e simbologie, l’essenzialità di un luogo. Specularità concettuale e propriamente tecnica della pittura che si assumeva il compito, invero oneroso e irrealizzabile per la scultura, di essere tra le arti figurative, quella più idonea, potenzialmente e concretamente, a rappresentare la vita. Questa, lungi dal definirsi esclusiva degli uomini, si concretizzava nel mondo degli oggetti ormai assurti per gemmazione, per concatenazione diretta, a strumenti che acquisivano la misura di un’esistenza autonoma.
Siamo al principio del quattrocento, nelle Fiandre. La pittura europea, già grazie ai maestri italiani si era lasciata alle spalle, due secoli or sono quanto di bizantino rimaneva ancora nelle pitture romaniche. Col gotico sarebbe avvenuto il miracolo. Da Cimabue ai Lorenzetti, il mondo, financo il mondo circoscritto dei bizantini, ormai emancipati dalle strette di una pittura ieratica e superficiale (ma non ancora tuttavia innovata per intero) poteva finalmente sentirsi libero e rappresentabile. Si tornerà indietro di molti secoli obliterando di colpo il medioevo che pure aveva rappresentato, fin dentro le sue secche culturali, la lunga e faticosa gestazione di una rinascita che ora poteva finalmente dirsi compiuta.
I pittori fiamminghi già italianizzati –sebbene possa dirsi il contrario di molti grandi pittori italiani da Antonello da Messina a Piero Della Francesca, su, su, fino al Foppa, al Lotto, al Parmigianino, al Caravaggio- o magari italianizzati a metà (non avendo assimilato in maniera totale la disciplina che veniva dagli studi sulla prospettiva) si trovarono a imboccare una via che era altrettanto significativa dei progressi e delle innovazioni della pittura come prima tra le arti figurative la più consona a definire e riprodurre la realtà umana e materiale: la vita nella sua accezione più ampia.
Dipingere dei personaggi in un interno significava coglierne l’umanità che diramava dai capelli, dalle tegole sotto i piedi, dagli specchi convessi, dai lampadari, fin dentro le finestre dalle quali si miniaturizzava l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande del mondo. La sensibilità delle espressioni evaporava e si trasferiva dai volti cinerei o paffuti e terragni, volti finalmente “difettosi” di realismo puro, alla viscosità dei drappi e delle sete, alla fredda materialità trasparente dei vetri e degli specchi, alla lucentezza metallica degli ori. Ogni cosa viveva di vita propria: i i tappeti, i libri coricati sui davanzali o messi in tralice, i piatti d’argento, le candele, le perle, le gemme, le parrucche, le monete, gli occhiali. Era l’aprirsi ormai disinibito, forse disincantato, alla spettacolarità del quotidiano. Il dischiudersi dell’occhio alla traboccanza degli oggetti ormai democraticamente ammessi a vestire la scena.
In effetti erano più che maturi i tempi, in quel pezzo di terra fiamminga tra quattro e cinquecento, proprio mentre il rinascimento italiano da Masaccio a Raffaello esplodeva come una fiamma immaginifica nel cielo dell’Europa, per far cantare la pittura a quel modo.
In questo contesto Quintin Metsys, al principio del secolo decimo sesto, può figurare forse come un tardo nepote di quel Van Eyck che agli inizi del quattrocento raccoglieva nella sua esperienza artistica questa elaborata innovazione. Pure, come un emulo che di genio ne ha del proprio, saprà toccare, rielaborando e personalizzando il verso, note non meno sublimi e geniali che l’antico maestro. In lui minuzie a espandersi, ritratti di fede e calcoli viravano a margine d’un quasi grottesco sentire.
I Cambiatori di valute è un’opera bellissima non solo per le qualità intrinseche della composizione (qualità di fattura, di resa, di disegno, di colore) ma per il nugolo di significati (psicologici, sociologici, storici, economici) che si addensano nell’iconografia. Qualità culturali che esprimono la cifra, stigmatizzata nella complessità dei rimandi e delle note, di un momento storico preciso, di una precisa e inequivocabile attualità. Il mestiere vacilla dagli occhi, dalla fragilità ossea delle mani, dal respiro dei colori cupi quasi oscuri dentro cui si muovono i due personaggi; dall’ombra del profitto che emana dal loro silenzio, meticoloso silenzio della borghesia affaristica di Fiandra, esemplarmente piegata, quasi assorta dentro una misura misteriosa di devozione profana.
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