Scritto da © Giovanni Perri - Ven, 16/12/2016 - 09:37
ecco l’albero magro, il fusto piccolo. Poi si scendeva dal dirupo e il sentiero svaniva nella paglia, dietro il muro sbucciato della casa.
Sapevo che era finito qui. Tutte le volte che scappava finiva qui.
Finiva qui ogni cosa, l’adolescenza, il fiato delle bestie al pascolo, la rugiada sui cigli erbosi nelle mattine d’inverno quando brillava ogni finestra ed ora mi sembravano due occhi bucati e bui in mezzo a un cielo senza più memoria, dove i ragni scrivono trame per acchiappare mosche. Il cancello azzurro arrugginito, il palo della luce coperto dal muschio, la vasca dove scivolava il giorno liquido e noi si andava a bere, felici d’essere.
Non so dire perché scappava. Forse un odore l’attirava, di pioggia e famiglia, e lui seguiva i piccoli profumi della terra e del cuore, o c’era qualche cagna nascosta qui da secoli ed io non l’ho mai vista. L’albero si. Quello sempre così, magro e malaticcio col fogliame fragile anche in estate e quando si giocava a nascondino si faceva lì la tana, che era il punto più alto da dove tutto si vedeva, persino la statale oltre i ciglioni e in lontananza il profilo dei monti che cadevano a mare.
Dietro il capanno, nello spiazzo dei ceppi, un rumore di sega. Mi sembra Pietro il cugino di Matilde. Si è lui. Mi avvicino al lamento del legno. Porta un berretto di lana e un giubbotto verde trapuntato senza maniche. Gli faccio ciao con la mia voce lontana e lui mi guarda col solito ghigno, si passa il dorso della mano sulla guancia. Poi ricomincia a segare.
-Sto cercando Larry, il cane di Iole, per caso lo hai visto da queste parti?
Si ferma di nuovo, guarda i monti e poi ricomincia a segare.
-Ehi! Pietro! Mi rispondi!? -niente.
Me ne vado senza salutarlo. Gli prende così; certi silenzi sembrano cadere da un suono lunare, dal fitto umidore dei boschi, dallo stomaco, o forse ci raccontano più di quanto si è disposti a comprendere, le forme del tempo, il lato barbaro, la fitta monotonia dei cieli assolati in certi pomeriggi estivi rotti qua e là dallo sparo di qualche fucile -glielo dicevo di portarla subito ma lui non mi sentiva e io battevo i pugni sul cofano cazzo vuoi ascoltarmi non possiamo rimanere qui a guardare, dov’è finito Larry? ma lui non mi sentiva e io battevo i pugni sul cofano-
Passo oltre lo steccato piegandomi. Il selciato è battuto dalle ruote dei trattori e al centro s’allunga l’erbaccia spontanea che all’incrocio s’interrompe sull’asfalto che porta al cimitero. Sulla destra il casolare di Andrea. Tiro un sassolino e colpisco una bottiglia di birra lasciata a terra da qualcuno. Sento un fischio e mi giro. E’ Giuseppe, il figlio del vinaio. Camminiamo insieme per qualche minuto mentre il cielo s’annuvola e sale l’ombra sulla distesa dei campi.
-Che ci fai qui? mi dice.
-niente, ero qui per Iole. Ha perduto il suo cane. -Piuttosto, tu che mi racconti?
Giuseppe non toglie mai le mani di tasca, è un suo vezzo, una sua antica maniera di portarsi tra le cose che sfuggono. Mi dice che devo smetterla con questa storia di Iole, che devo farmene una ragione, non posso andare avanti così. Che tutto il paese parla di me e che sono già cinque anni ma io me ne sbatto e gli dico che è un cretino, e che tutti sono cretini e che questo paese di merda fa schifo e il farmacista fa schifo perché la notte nessuno la sente l’ambulanza e nessuno le vede le mie gambe che tremano quando passo davanti al cimitero e Iole mi guarda -Iole giù dal dirupo tra le lamiere e Larry fuggito via e mai più visto-.
Giuseppe mi guarda spaventato. Non l’ho mai visto così spaventato. Quando io ero piccolo andavo dal padre a comprare il vino. Tutte le volte che entravo mi chiedeva quanti anni avessi e io ogni volta gli dicevo -sett’anni, e lui mi rispondeva -ma tieni sempi sett’anni? e così mi prendeva in braccio mi accarezzava la testa e mi diceva di tornare a casa e stare attento al vino che non mi cadesse e una volta mi ricordo che presi una bottiglia e la lanciai per aria.
Ma non è mai caduta quella bottiglia.
Sapevo che era finito qui. Tutte le volte che scappava finiva qui.
Finiva qui ogni cosa, l’adolescenza, il fiato delle bestie al pascolo, la rugiada sui cigli erbosi nelle mattine d’inverno quando brillava ogni finestra ed ora mi sembravano due occhi bucati e bui in mezzo a un cielo senza più memoria, dove i ragni scrivono trame per acchiappare mosche. Il cancello azzurro arrugginito, il palo della luce coperto dal muschio, la vasca dove scivolava il giorno liquido e noi si andava a bere, felici d’essere.
Non so dire perché scappava. Forse un odore l’attirava, di pioggia e famiglia, e lui seguiva i piccoli profumi della terra e del cuore, o c’era qualche cagna nascosta qui da secoli ed io non l’ho mai vista. L’albero si. Quello sempre così, magro e malaticcio col fogliame fragile anche in estate e quando si giocava a nascondino si faceva lì la tana, che era il punto più alto da dove tutto si vedeva, persino la statale oltre i ciglioni e in lontananza il profilo dei monti che cadevano a mare.
Dietro il capanno, nello spiazzo dei ceppi, un rumore di sega. Mi sembra Pietro il cugino di Matilde. Si è lui. Mi avvicino al lamento del legno. Porta un berretto di lana e un giubbotto verde trapuntato senza maniche. Gli faccio ciao con la mia voce lontana e lui mi guarda col solito ghigno, si passa il dorso della mano sulla guancia. Poi ricomincia a segare.
-Sto cercando Larry, il cane di Iole, per caso lo hai visto da queste parti?
Si ferma di nuovo, guarda i monti e poi ricomincia a segare.
-Ehi! Pietro! Mi rispondi!? -niente.
Me ne vado senza salutarlo. Gli prende così; certi silenzi sembrano cadere da un suono lunare, dal fitto umidore dei boschi, dallo stomaco, o forse ci raccontano più di quanto si è disposti a comprendere, le forme del tempo, il lato barbaro, la fitta monotonia dei cieli assolati in certi pomeriggi estivi rotti qua e là dallo sparo di qualche fucile -glielo dicevo di portarla subito ma lui non mi sentiva e io battevo i pugni sul cofano cazzo vuoi ascoltarmi non possiamo rimanere qui a guardare, dov’è finito Larry? ma lui non mi sentiva e io battevo i pugni sul cofano-
Passo oltre lo steccato piegandomi. Il selciato è battuto dalle ruote dei trattori e al centro s’allunga l’erbaccia spontanea che all’incrocio s’interrompe sull’asfalto che porta al cimitero. Sulla destra il casolare di Andrea. Tiro un sassolino e colpisco una bottiglia di birra lasciata a terra da qualcuno. Sento un fischio e mi giro. E’ Giuseppe, il figlio del vinaio. Camminiamo insieme per qualche minuto mentre il cielo s’annuvola e sale l’ombra sulla distesa dei campi.
-Che ci fai qui? mi dice.
-niente, ero qui per Iole. Ha perduto il suo cane. -Piuttosto, tu che mi racconti?
Giuseppe non toglie mai le mani di tasca, è un suo vezzo, una sua antica maniera di portarsi tra le cose che sfuggono. Mi dice che devo smetterla con questa storia di Iole, che devo farmene una ragione, non posso andare avanti così. Che tutto il paese parla di me e che sono già cinque anni ma io me ne sbatto e gli dico che è un cretino, e che tutti sono cretini e che questo paese di merda fa schifo e il farmacista fa schifo perché la notte nessuno la sente l’ambulanza e nessuno le vede le mie gambe che tremano quando passo davanti al cimitero e Iole mi guarda -Iole giù dal dirupo tra le lamiere e Larry fuggito via e mai più visto-.
Giuseppe mi guarda spaventato. Non l’ho mai visto così spaventato. Quando io ero piccolo andavo dal padre a comprare il vino. Tutte le volte che entravo mi chiedeva quanti anni avessi e io ogni volta gli dicevo -sett’anni, e lui mi rispondeva -ma tieni sempi sett’anni? e così mi prendeva in braccio mi accarezzava la testa e mi diceva di tornare a casa e stare attento al vino che non mi cadesse e una volta mi ricordo che presi una bottiglia e la lanciai per aria.
Ma non è mai caduta quella bottiglia.
(Giovanni Perri)
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