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Lavinia

Potrei cominciare dicendo che era cieca, come se questa sua caratteristica prevalesse su tutte le altre, sulla bellezza, sull'intelligenza e pure su quella intransigenza affettuosa con cui interagiva col prossimo.
Era cieca, Lavinia, sì. Lo era diventata a causa di una malattia, a diciotto anni, e ci aveva messo un bel po' prima di capire che la sua vita non era finita, che c'erano altre possibilità. Rimpiangeva ancora i colori, ma adesso era pronta a dirsi fortunata per averli almeno visti nella prima parte della sua vita. Quante persone aveva incontrato che non sapevano cosa fossero! Invece i volti, le espressioni delle persone, aveva imparato a leggerli altrimenti, sulla punta delle dita, o dalla modulazione delle voci.
Così aveva capito che l'amavo: dall'arrochirsi della mia voce quando mi era vicina, e i suoi capelli mi sfioravano. Un amore senza speranza, come si suol dire, per molti motivi. Non ultimo perché io avevo il doppio dei suoi anni e sono donna mentre a lei piacevano i giovani maschi della sua età.
Ma tant'è, l'amavo lo stesso e, per rintuzzare le sue perplessità sul proseguire il nostro rapporto, le ripetevo le parole di Goethe: Si je vous aime, en quoi cela devrait-il vous concerner?
Lei rideva. «Sei proprio matta, Maria», mi rispondeva. «Ma lo sai che ti voglio bene, vero?»
Ebbi la gioia di starle vicina per alcuni anni. Tutto finì quando lei, sfiorandomi il volto, vi scoprì una lacrima che non ero riuscita a trattenere. «Ecco, adesso mi riguarda», mi disse. «Maria, credimi, è meglio se non ci incontriamo più.» Non so perché non feci resistenza e me ne andai.
Passarono altri anni, ed io ormai ero una anziana signora solitaria, di quelle che nessuno sa che esistano, che conducono le loro vite appartate sfruttando l'isolamento che garantisce la città. Nascoste a se stesse, prima ancora che agli altri.  La sua telefonata squarciò il velo del tempio della mia solitudine.
«Maria, sto morendo», sentii che mi diceva la sua voce. E io, pazza, ero felice che mi avesse chiamato. Andai a casa sua, ripercorrendo quelle strade che conoscevo palmo a palmo, passo a passo, per avergliele descritte nei dettagli, in modo che potesse muoversi agevolmente. Ero stata i suoi occhi e adesso che lei moriva non sarei stata mai più nulla, nulla.
«Come mi trovi?», mi domandò appena arrivai nel suo appartamento. Io ero ammutolita dal suo aspetto. La sua bellezza era stata come sublimata dalla malattia, aveva assunto un che di trascendente. «Male eh?», sospirò Lavinia, equivocando sul mio silenzio. «Per fortuna non mi posso vedere allo specchio!» Quel guizzo mi commosse indicibilmente e non seppi resistere.
L'abbracciai di slancio e per la prima volta sentii i suoi muscoli che ad uno ad uno cedevano alla mia stretta. No, non facemmo l'amore: nessuna di noi due aveva più corpo. Ma restammo lì, per un tempo che non so contare, dilatato dall'intensità dell'emozione.
Rimasi con lei fino a quando non morì. Ma non voglio ricordare questo. Voglio ricordare quando ci sciogliemmo da quell'abbraccio e lei mi disse: «Finalmente ti vedo felice.»
 
 
 

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