Scritto da © ferdigiordano - Mer, 25/11/2015 - 12:28
In quel punto avevo ceneri – carne o legno che fossi –,
e per una volta uomo
ha indossato i miei panni la bruma.
Come me, a macchie distratte dall’aria, sudori
adescati dalla stoffa che rilascia acido in posa.
Anche l’umido teneva al fresco – cantina o torace che fosse –,
poi mi spingevo oltre, a Castel San Lorenzo in genere,
legando le colline a racconti, i nomi all’indice
contesi a memoria, privi delle virgole
nei tornanti ridotti a promesse della buona sorte,
condotti fuori luogo dalla mimica dei ruderi.
Ligio alla norma dei poggi “declinare non è una rinuncia
a monte”, spendo tre ore per un momento di pace
dettata dalla provinciale in forma
di orlatura, tra asole rosse, scucite e stinte
dall’intonaco più grossolano del vento.
Un solido far niente ormai, liberato dalla foschia
dell’incognito, tradotto in posti noti, metto fichi nel cuore.
Il sacco ad opera degli occhi spagina rami, lancia sonde a colori,
come quelle foglie ruvide, con i peli ispidi che ti fecero
i capelli, Gillo, e fanno fresco il sapore
dell’orizzonte contorto che prende il moggio.
Queste zolle si avvicinano, o io vado a loro, coerente
alla legge del corpo “declinare è di tutte le cose sollevate
da terra per una vita sola”.
Mi alzo, adesso – roccia o vapore che fossi –,
metto cordialità nel saluto come vuole la bruma
e avvolgo vigne, ulivi, orti, addobbi di stagione:
suono ansioso, per quanto mi segue a ruota.
In quel punto avevo ceneri – carne o legno che fossi –,
e per una volta uomo
ha indossato i miei panni la bruma.
Come me, a macchie distratte dall’aria, sudori
adescati dalla stoffa che rilascia acido in posa.
Anche l’umido teneva al fresco – cantina o torace che fosse –,
poi mi spingevo oltre, a Castel San Lorenzo in genere,
legando le colline a racconti, i nomi all’indice
contesi a memoria, privi delle virgole
nei tornanti ridotti a promesse della buona sorte,
condotti fuori luogo dalla mimica dei ruderi.
Ligio alla norma dei poggi “declinare non è una rinuncia
a monte”, spendo tre ore per un momento di pace
dettata dalla provinciale in forma
di orlatura, tra asole rosse, scucite e stinte
dall’intonaco più grossolano del vento.
Un solido far niente ormai, liberato dalla foschia
dell’incognito, tradotto in posti noti, metto fichi nel cuore.
Il sacco ad opera degli occhi spagina rami, lancia sonde a colori,
come quelle foglie ruvide, con i peli ispidi che ti fecero
i capelli, Gillo, e fanno fresco il sapore
dell’orizzonte contorto che prende il moggio.
Queste zolle si avvicinano, o io vado a loro, coerente
alla legge del corpo “declinare è di tutte le cose sollevate
da terra per una vita sola”.
Mi alzo, adesso – roccia o vapore che fossi –,
metto cordialità nel saluto come vuole la bruma
e avvolgo vigne, ulivi, orti, addobbi di stagione:
suono ansioso, per quanto mi segue a ruota.
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