Governo le narici tra i tuoi odori e posso dirli
indicatori o finestre. In qualche caso il vento li toglie dai piedi,
pantofole rosse con l’aria di chi più ne trova e più ne coglie
– spiffera all'ingresso, racconta, del resto.
Non ho il polso del tempo, quindi non può darmi una mano
l’orologio – sarà mancare sempre il suo verbo, ora? –
pertanto altri luoghi – mai indossati ad esempio – tremo
mentre lanciano segni potenti: l’esternazione della pelle,
la manomissione dei capi, la lana sintetica – farà freddo d’ora in avanti,
assioma della neve perenne –, il consorzio di premitura del vino novello.
E sarei io la foglia e tu la terra, Terra?
“Sarò chiaro – fu esplicito il cielo, – fino a settembre.
Poi tirerò in ballo il legno. Il tronco che imbocca la terra,
le foglie che fanno il lavoro stagionale di pavimento che scrocchia.”
Questo disse a lei, o quel che era Terra, me compreso.
E fu allora che divenne noto come sia sottile quella volta trasparente
se, pur con mucillaggini dense, e scuse dattiloscritte,
non copre l’universo e altri splendori.
Rimane da capire le date, come residenze.
Ah no!
Io ne faccio divieti da ricordare, blocchi per disappunti,
giudico un errore dalla ricorrenza.
Quanto mi manca, sia di parola sia di cosa che, è un credito. Chiede
una corsia preferenziale, spera di avanzare per attraversare la notte.
La notte è ormai sonno precipitato, riscossione di tremiti.
Vengono dalle strade che lavorano ai fianchi,
ma se affermo che tra di noi corre l’intesa, si sente preso in giro il sole
per quel pallido sollecito che l’umido mai secca.
Passano profumi ormai fuori di me, e questo indica l’avvento
e scie volubili, che avvolgono la mente, dal pentateuco del corpo,
libro annoso in cui si apprende la profilassi del beneamato,
e della nostra sussistenza,
quasi che le tracce utili siano solo appannaggio di chi inaugura il calendario
– come meta, come cancelli a scuola.
Non si va lontano a furia di stagioni, si va al limite del possibile.
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