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Pre visione di avaria

 
Dovrà interrarsi l’erba che fece da coperta
alla nudità del solco: come riconoscere
adesso l’eponima del verde? Dove si trova
un salto, una capriola, o il capriolo che la fece
sua? Sul vetro affronto una specie di ulivo
costiero, calpesto semi, presso
una mistura di olio e sale e voce
a velo che tu prendevi
            per la neve.
            Qualsiasi incubo
ora è più spesso: nebbie, cappotti,
scarpe, cordogli, gli amici inavvicinabili come cardi.
Per settimane dura l’avaria del tepore, credetemi.
Credimi Signora, è tutto dovuto al manutentore
del gelo. La stagione monta i suoi mobili
all’aperto, occupa lo spazio prima dei miei occhi.
È agghiacciante come ogni cosa si adegui
senza ribellione e non aggiusta
            che passi.
            Il paesaggio
aumenta la sua trasparenza, versa rami,
i miei fanno olive salate e semi come neve,
lassù, una bianca misura a volte prende
attraverso il vetro e chi ci sente, ed è vero,
avvia l’elica del pensiero; un battello il cielo,
rema il vecchio vento, pieno di verbi secchi
            e riflessi lenti.
            Ricorrenti
per volontà del luogo. Ecco la mia figura
nell’ulivo costiero, anche il naso è un ramo nudo.
Il tronco ospita germogli, ho ancora fogli  
col tuo nome per il diritto della memoria
a mettere radici nelle crepe, intanto sappi
che l’idea matura poco e genera
un accidente villoso, malmesso in genere,
bizzoso e irascibile. Un seme eclettico,
per una parte egemone, per altro servo,
e per di più coevo dell’inferno, delle lave
e di quanto espulso fece
            questo ambiente.
            Parla da secoli
agli angeli consueti o persi,
alla previsione che ci saremmo stati
fra zolle piene di verbi striscianti, pericolosi.
Ma vederti è un vero paradiso al portatore.
 

 
 

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