Scritto da © ferdigiordano - Sab, 12/10/2013 - 18:44
Di città in città, ogni quartiere vive a fatica, Eracle.
Tanto lontana da te che nemmeno ti volti
quando incontri gli uomini al bar. Se li ascolti prendersi
a parole, non sentire, ma tergiversare
alla cassa, trovi il paese che non è più,
è mancato. I fauni siedono rattrappiti
alle lunghe, lunghe tavole della carità
con tutti i mestieri accompagnati da voci umane,
viventi e narrati. È contagio, incubo, marmi.
Quando vedo quegli uomini al bar, vorrei un cavallo
invece di una nave, perché ovunque il deserto sia stato
può ritornare.
Ma la cosa amata, come la ricordo, è là
dove non hai visto i tuoi limiti o non ti salutano
i confini quando hai varcato lo steccato.
Voltavamo la faccia ai canali perché il mare sembrava invitante
ma gli occhi erano alla mano che andava in alto
- le dispute stranamente irrobustivano un certo aspetto -
e il ragno dell’appartenenza tesseva coperte di gesti
come bandiere. Adesso divampa un crimine diffuso
che imbratta gli inni con la lugubre staticità
dei reduci. Mi dico che il futuro dovrebbe raccontarci
qualche arrivo certo. Mi dico che siamo stati viaggiatori
di un cammino mai fatto. Avevo doveri ed ho mancato,
è l’unica dichiarazione attendibile che sento di lasciarti, Eracle.
Avevamo l’epica nella valigia e un millennio per cantarla:
quegli slogan sono muti nelle hall of fame. Hanno il tuo
stesso corpo di pietra e l’unico attributo della lingua
per le metope del tempio: niente parole, grazie, veniamo
da una lunga sbornia e per tanto ci farà male domani.
Ah, Eracle, che sconfitta ritrovarsi solo a fatica.
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