Ne avevamo anche quintali, quindi eravamo di peso.
Quintali di sicumera. O, come dice il devoto: spocchia,
supponenza, arbusti infiltrati da tronchi. Non da terra,
ma sorti da dio. Si può obiettare che non sia questo
il verso giusto per affrontare le parole. Nel paese
le sirene sono sulle labbra di tutti e i denti cadono
nel tranello dei morsi. Un onorevole scontro
potrebbe spremere il succo dal verbo
che avrebbe amato
lo avesse soccorso per quel che è, non per quanto firma.
L’inconsolabile cittadino portò le braccia al petto
come un granchio. E da granchio, si spostò sul fianco.
Non poteva che avanzargli la spalla, defilato al lavoro,
stanco, forse un caso, certo la faccia dismessa non basta.
Lasciò scorrere il fiume nel vetro sentendosi al riparo,
trovò l’ago nella legge, sollevò un vespaio. Stette incolume
la spocchia immemore, orba di tanto filo.
O si trattava di ricucire lo strappo tra diverse lingue.
Se in quel momento
un uragano, o un colpo di tosse dal fondo, avesse scosso
le belle figure che abboccano, più che le quaglie
all'ultimo sole disperatamente trattenuto in volo,
da lassù si sarebbe visto come si incazza la platea, per poco.
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