Quello che secca dell’ombra è la sua radice.
E’ davvero quest’ultima presa dal cielo e,
inalterata, diffusa, pianta confini dove può.
Come se niente fosse, il corpo del muschio
non esprime venature, sicché l’idea dell’acqua
si agita per la sua stessa forza e sale, pillola
di marea o seno di vapore – qualsiasi
umidità a quel punto emette suoni, il labiale
apre ai sassi una lingua mobile e ai muri
un segno vergato a mano dal più tenero verde.
Pur sempre una porta.
Non esiste altro indicatore, in seguito,
che di nuovo il cielo in tutta fretta. Un arbitrio
di indici verso cui andare fuggendo.
Il muschio, come ogni terragno, è libero di
esporsi nella singolarità di una frase: là, il polo.
E non alza dito, resta disteso e poroso.
Una stella non saprebbe fare meglio. Il bambino,
allora, punta lo sguardo, muto nel portamento, fa spazio
alla persona multiforme, al settimo cielo, diventa futuro
muschio, ampio, legittimo, occupa la macchia con circospezione.
Una invocazione di corsa, motiva i puledri nel ventre.
La conferma viene dalla sera,
sopraggiunta in ogni senso: questa talpa è in noi
e scava gallerie piene di porte
che non si aprono in tempo.
Ma se la notte è mappa universale e situa l’occhio
sopra i tetti con la serietà descrittiva di un luminare,
di giorno puoi tenere in mano qualsiasi cosa
tu non possegga, essa apparirà nell’ombra
come tua estensione, irraggiungibile dal nome,
pure se la voce, incisa con passione, invoca
quando compare un tratto familiare
nella sua orbita.
Tuttavia, l’immancabile gioco delle attrazioni
tra l'uno e l'altra, tra me e te lettore, tra di loro,
addensa corrucci a vapore, talmente leggeri
da pesare meno della coscienza
o di chi si libera di ogni sbarramento.
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