Scritto da © ferdigiordano - Mar, 03/09/2013 - 14:26
Il posto è una vertenza di luce
tra stelle e case. Una gara a farsi più danno. Lassù,
l’ascella del cosmo mostra pelurie brune e lente
diatribe di tinte rosse che virano a notte. Ma è
l’oriente che già tira le coperte.
Tu lo chiami ascolto notturno,
Totò, e seduto in terrazza cerco gli appunti vocali
che ti sono caduti. Non si alzano, coerenti con l’occhio
che non li trova. Bisogna cercarli in altro modo: il nome
sorge da lettere nere, isolato nel calendario del corpo.
Da qualsiasi data tu sia venuta
era certo un bel giorno e lo è ancora. Per questo glicine,
immagino, cui hai dato l’acqua con parole vitali
tanto fragili da far tendere le foglie fino alle labbra,
e per le formiche, meraviglia, tra me e loro, simile:
“Chi è questa gigante che ti dà una briciola enorme?”
Oppure: “È tardi, rientriamo,” ed erano le tue labbra
in relazione al buio.
Ho scoperto qui la passione
che ti legava ai santuari, alle opere in cui si parla agli uomini
con l’alfabeto degli angeli. Qui ho subito la reincarnazione
del dubbio quando il Capitano ha messo in valigia
la vita ed è partito in salita, e contemporaneamente
arrivava nel ventre mio figlio. Per quale loro sventura
il suo sangue e l’altro suo non si sono conosciuti?
Chi di noi era il più vecchio volle
distendersi un poco. Guardo la sdraio e vedo il fosso
nel telo: la tua nuvola si forma, così raccolta e chiusa
così racconta, io penso.
Così raccolta racconta perché il giorno non dura.
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