Scritto da © ferdigiordano - Mer, 19/10/2016 - 11:33
Guardo l’orto che mi affronta duro, incolto:
ne sa più di me, non c’è dubbio, gli prendiamo il cuore
e ce ne dimentichiamo a sbafo. Così l’uomo ruota
con la stessa natura del fondo. E interra l’osso.
Mario, quando ancora insegnava ai solchi gli interessi
da coltivare, spiegava lattughe, pomodori, cavolfiori,
basilico, lumache, merli, roditori, cani (questi ultimi
non si piantano mai da soli, e mai ti pianteranno, diceva).
Era un maestro delle rotazioni, coinvolto dalla luna,
breviario manuale portato alla terra, che adesso fertilizza
di suo. Mario
stava tra le viti meglio di un ferraio al banco;
e l’uva, prima delle botti, filava dritta dal pampino
al fusto. Un chicco è allievo ovunque, acino che sa
diventare collega, legati i tralci come linee dell’alta
tensione. Tutto intorno gode dell’abbandono.
L’abbandono è l’alibi della selva, diceva.
Questo arrembare furioso di malepiante, di steli
conosce il principio del bosco e lo indica a ragione
soglia per il suo comodo, a parte il rovo orgoglioso.
L’orto è rimasto solo; solo vuol dire all’insaputo
si aggiunge il non appreso: diversità consapevole,
difesa e accoglimento del genere minore, fiorirre oltre
la luce e l’antico margine, la potenza della moltiplicazione,
l’uguaglianza tra ciò che si vede e quanto non si trova.
L’orto non più dispensa:
piselli, fagioli, cipolle, nomi senza pedigree,
però già pronti all’uso, sottratti a quella sublime
simbiosi che lega la buona natura al sapere
metterla a frutto, dalle barbe alla bocca vuota.
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