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Ho visto la stazza imponente del naviglio
da pesca, [lu’ig:i] (con quella fonetica di fondo
endemica in alto mare) lo raccontava
degli ancoraggi governativi sul molo commerciale,
affollato di relitti come timorati salati,
con gli oblò chiusi in piena fronte;
caduti dai rami del mare, accrocchiati ai tavoli
del bar da una lucida tramontana: pescatori!,
foglie del golfo prive dell’autunno, solo inverno
per lo zelo dei possenti armatori del gelo;
sono sbarcati, oh sì, nelle strade acuminate
di una piatta città meridionale, con zoccoli
di gomma, guanti di gomma, morti di gomma;
non fanno più rumore del golfo di guinea,
nè del corno d’africa, aperti ai pirati e alle flotte
cinesi non meno del mediterraneo che ha perso
le squame per riempirsi di pelle; niente di ieri
è pronosticabile domani, peripli e isole
solo pedonali; vivono in disparte
come le bitte, ormai; la gomena d’attracco
è tutta la rotta possibile sul continente
per questo stanco stanco ondivagare: sempre
l’entroterra assume il debito del molo
– una lunghezza tonica, di cantilena –
sempre aggrega la tribù spaesata dei piedi freddi,
così il porto abbottona la sua giacca di lamiera:
chi davvero ricorda i nafraghi stanziali?
ah [lu’ig:i], non me ne parlare,
siamo tutti obbligati alla terra.
 

 
 

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