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                    In una congettura
trovo la luce. Per assioma, la notte
non dura. Appaiono sui leci i sintomi del giorno:
una guaina di afa viene con brividi sereni.
Chiamo congettura ogni poggiatesta
di carne (lei dice che i capelli sono
causa di calvizie o di solletico – mi iride).
Si sposta in cucina con un sonar nel ventre.
Credo resti interdetta quando cerca il bagno.
 
                     Non è ancora mattino,
ma mi agiunta quasi avessimo traversato le note
in una cabriolet. Si chiama Roa, o non risponde.
Un indio sono i petali: per come carezza
non diresti siamo artigli. Non l’ho detto,
però mi atrae il pericolo.
 
                    Qualcosa ricodo, forse un gemito
sfuggito dal torpore languito, ma chi non è sveglio
spesso esprime un ritardo, un sonno che torna alla sera.  
Non farò mai in tempo a concedere parità ai sesi.
Non è possibile e, per fortuna, siamo diversi.
La dità, invece, ci prende ugualmente.
Per questo amo Lisistrata in un unico punto del semiccoro.
 
                      Così penso che già dal caffè
un fil di fumo non guasi. Mi piacerebbe
che le voci restassero aletto, invece sono
le prime ad alzarsi. Le voci si alzano
perché i sussurri sono lusinghieri  
                       e di fonte la luce da vita al fianco.
 

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