Scritto da © Franca Figliolini - Mar, 23/03/2010 - 16:15
Lei aveva un rapporto quotidiano con la sua morte. Non che la desiderasse, non più di quanto avesse desiderato la vita, d'altronde. Solo che, come dire?, sapeva che prima o poi sarebbe capitato, così come le era capitato di nascere le sarebbe capitato anche di morire. In realtà accumulava anche quelli che adesso si chiamano "fattori di rischio" come se li collezionasse - questo ce l'ho, questo mi manca. Sicché si sarebbe potuto supporre un certo gusto per l'autodistruzione, ma non c'era compiacimento in questo, solo che non la vedeva come un rischio, la morte. Piuttosto come una certezza. Trovava stucchevoli tutte quelle dichiarazioni sul fatto che fumare o essere grassi accelerassero il processo: come si può accelerare ciò il cui tempo non è previsto né prevedibile? Non è come se gli esseri umani avessero una data di scadenza, ma solo se conservati in modo corretto. Solo, ad un certo punto, almeno finora, ed estrapolando dai precedenti, e senza voler porre ipoteche sul futuro, accade che muoiano.
Insomma, le accadeva di pensarci praticamente tutti i giorni. Certe volte si chiedeva come avrebbero reagito le persone che amava. Li vedeva abbracciarsi pieni di dolore e vedeva nuovi amori nascere dall'amore per lei che non c'era più. Oppure, quando era di umor nero, ne constatava inorridita la sostanziale indifferenza, ma poi pensava che lei era morta, e quindi la cosa non poteva toccarla. Altre volte si chiedeva, qualora effettivamente per qualche motivo le fosse stata comunicata una scadenza, come avrebbe potuto dirlo loro, con quali parole. E come fare con quelli che abitavano lontano? È cosa che si possa comunicare per lettera, o al telefono? Bisognerà organizzare un incontro di persona? Non facciamola lunga: fatto si è che esaminava tutte le possibili circostanze, prima e dopo il fatto, con una certa tendenza al melodramma temperato dall'autoironia. Ripetiamolo, lo faceva senza che questo sottendesse un desiderio.
Tranne in un caso: quando era felice. Allora sì che avrebbe voluto che il tempo si fermasse davvero, che collassasse ad un punto - e l'unico modo che conosceva perché questo avvenisse, era morire. A nulla valeva il pensiero, che pure aveva, che qualora ciò fosse successo, le avrebbe impedito di vivere altri momenti felici. Quello che prevaleva era il desiderio che quella felicità non finisse impaniata nel tritatutto della quotidianità, che restasse unica, speciale. Non che avrebbe mai fatto qualcosa per mettere fine alla sua vita: in questo senso i suoi freni inibitori erano molto potenti. Solo, chiudeva sospirando gli occhi, e sperava di morire.
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