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Sua maestà, la regina Che

Tutti i grammatici sono concordi – una volta tanto – nel definire la congiunzione “che” regina delle congiunzioni subordinanti; la ritroviamo, infatti, a introdurre quasi sempre ogni specie di proposizione subordinata. Il titolo di regina le spetta, dunque, per “diritto linguistico”. Oltre a essere una congiunzione dichiarativa – che è la sua principale funzione – la “regina” è anche congiunzione causale: si arrabbiò moltissimo ‘che’ io fossi mancato all’appuntamento; e finale: stava sempre attento ‘che’ i figli si comportassero bene; e consecutiva: il freddo è tale ‘che’ non si resiste; e comparativa: è più intelligente ‘che’ non sembri; e temporale: lo incontrai ‘che’ era inverno inoltrato.
Altre volte si può trovare davanti ad altre specie di proposizioni subordinate in compagnia di altre parole; talvolta anche fusa con queste ultime, tanto ‘che’ è appena riconoscibile: allorché (allor che), fuorché (fuor che), sennonché (se non che), poiché (poi che), ancorché (ancor che) e via dicendo. A questo proposito non siamo affatto d’accordo con alcuni scrittori “moderni” che “scopiazzano” i loro colleghi francesi che riducono al minimo l’uso delle congiunzioni: preferiscono uno stile letterario che lasci indipendenti il più possibile le proposizioni l’una dall’altra; non amano, insomma, la subordinazione. La moderna lingua d’Oltralpe preferisce dire, per esempio, “pioveva moltissimo. Da tempo non si vedeva una pioggia così abbondante” in luogo di “vien giù una pioggia ‘quale’ non si vedeva da tempo”. Anche in casa nostra – come dicevamo – c’è la tendenza a sopprimere più che si può le congiunzioni, a imitazione dei Francesi, secondo la famosissima “legge” che stabilisce l’erba del vicino essere più verde. Certo, non si può negare il fatto – evidentissimo – che le congiunzioni appesantiscono il periodo; i periodi con pochissime congiunzioni risultano indubbiamente molto più snelli. Ma è altrettanto certo il fatto che è proprio del genio della nostra lingua – idioma gentil sonante e puro, per dirla con l’Alfieri – concatenare in modo logico le varie proposizioni del periodo e metterne bene in evidenza i rapporti finali, temporali, causali e gli altri che esistono tra questi. E questo compito è proprio delle congiunzioni. Per questo motivo condanniamo – senza appello – i moderni scrittori che privilegiano lo “stile gallico” al posto di quello “italico”. Il nostro stile è il vero erede di quello latino, quant’altro mai complesso, organico, compatto, concatenato. Ma non basta. A infilzare una lunga teoria di proposizioni indipendenti e necessariamente brevi – a imitazione dei moderni scrittori francesi – si finisce con il ridurre il discorso – e, quindi, il nostro scritto – a una cadenza sincopata, asmatica, singhiozzata, che a lungo non può che generare pena e monotonia. Quando ci capita di leggere una paginetta di quelle “minifrasi”, ciascuna delle quali va per proprio conto, ci sembra di sentire un discorso dinoccolato, disarticolato, senza scheletro. Il discorso, insomma, di un selvaggio. Per concludere queste noterelle riteniamo, dunque, che sia opportuno rimanere fedeli alla nostra lunga tradizione linguistica – consacrata da moltissimi “mostri” letterati – perché quando si sa maneggiare bene la penna e si fa un uso accorto delle congiunzioni i nostri scritti avranno un bell’effetto e un maggior vigore d’espressione. Attenzione però, ripetiamo, al loro uso corretto. Nella lingua parlata, per esempio, non si fa alcuna distinzione tra “ovvero” e “oppure” e si adopera l’una o l’altra congiunzione con valor disgiuntivo. Ciò è un grossolano errore: solo “oppure” è una congiunzione disgiuntiva con il significato di “o”; mentre “ovvero” è congiunzione di equivalenza (o esplicativa) e sta per “cioè”, “ossia”. Perché alcuni vocabolari non specificano la differenza che intercorre tra le due congiunzioni? O, peggio, le attestano come sinonimi?
 
Fausto Raso
 
 
 
 

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