Scritto da © Fausto Raso - Mer, 09/01/2013 - 00:41
Il nostro Paese – come si sa – è stato terra di conquista di molti popoli che hanno lasciato le loro “impronte” nel nostro idioma. Non possiamo sottacere, quindi, il fatto che gli Spagnoli, essendo stati i “padroni” di alcune nostre regioni, abbiano lasciato un segno indelebile della loro cultura e della loro lingua, ci abbiano dato, insomma i cosí detti iberismi. Vediamo, innanzi tutto, che cosa si intende con il termine “iberismo”. In linguistica si chiama cosí ogni parola o locuzione spagnola (o portoghese) entrata nell’uso comune della nostra lingua, solitamente con modificazioni della grafia e della pronuncia adeguandosi – in tal modo – ai sistemi grafici e fonetici del nostro idioma. Gli iberismi presenti nella nostra lingua si possono dividere in due gruppi: a) termini provenienti dallo spagnolo, propriamente detti “ispanismi”; b) vocaboli provenienti dal portoghese, propriamente chiamati “lusismi” (dall’antico nome del Portogallo: Lusitania). Questi ultimi, per la verità, non sono molti, al contrario degli ispanismi che entrano nell’italiano nel periodo che va dalla seconda metà del secolo XVI alla fine del XVII secolo, in coincidenza, appunto, del dominio spagnolo in Italia. Nei secoli precedenti sono poche le voci spagnole entrate nella lingua, ricordiamo “maiolica”; “infante” (nell’accezione di “principe reale”); “gala”(entrato, però, attraverso il francese) e “marrano”. La maggior parte degli iberismi, o meglio ispanismi, si ha – come abbiamo visto – con la dominazione spagnola. In questo periodo entrano nel nostro idioma termini militari come “alfiere” e “recluta” (voce derivata dal francese “recrue”, participio passato femminile del verbo “recroite”, ‘ricrescere’, “ricrescita”; come osserva il Tommaseo “accrescimento delle milizie per giunta di nuovi militi. C’è anche da dire che i puristi vorrebbero si dicesse “reclúta”, con l’accento sulla “u”, con la pronuncia piana, dunque, come la gran parte delle nostre parole); voci della moda: “alamaro”, “guardinfante”; termini marinareschi: “rotta”, “doppiare”, “nostromo”, “flotta”, “flottiglia”, “risacca”; termini vari: “buscare”, “appartamento”, “arrabattarsi”, “floscio”, “accudire”; voci “danzatorie” come “sarabanda” e “ciaccona”; termini di “comportamento sociale” come “baciamano”, “etichetta”, “creanza”, “disinvoltura”.
Dopo un periodo di stasi, in cui l’influenza spagnola sulla nostra lingua è pressoché nulla, si ha un “risveglio” nell’Ottocento in cui entrano nel nostro linguaggio vocaboli come “bolero”, “baraonda”, “caramella”, “camarilla”, “compleanno”, “corrida”, “disguido”, “guerrigliero”, “farfugliare”.
Pochi, invece, come abbiamo accennato all’inizio, i “lusismi” accolti nel nostro vocabolario in quanto i rapporti tra il nostro Paese e il Portogallo sono stati – nel corso dei secoli – quasi nulli e per lo piú indiretti; ciò spiega la “pochezza” del linguaggio italo-lusitano. Citiamo, dunque, i “lusismi” che tutti adoperiamo inconsciamente: “marmellata”, “casta”, “tolda”, “autodafé”. Il portoghese, tuttavia, come lo spagnolo, ha il “merito” di avere introdotto nella nostra lingua termini derivati dalle diverse lingue originarie dei Paesi extraeuropei che furono a lungo colonia della penisola iberica: “banana”, “bonzo”, “samba”, “pagoda”, “cavia”, “macao”, “mandarino”.
Fausto Raso
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