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L'omeoteleuto

Nel meraviglioso universo della linguistica italiana ci sono termini che, nonostante siano prettamente tecnici, posseggono una bellezza intrinseca. Uno di questi è "omeoteleuto" (o “omioteleuto”), vocabolo probabilmente sconosciuto ai più perché non sempre è trattato nelle comuni grammatiche scolastiche. Ma vediamo l’accezione di questo sintagma e che cosa nasconde. Cominciamo, dunque, questo affascinante viaggio linguistico alla scoperta dell’origine, del significato e dell’uso del termine in oggetto.
Partiamo dalle radici del lessema. "Omeoteleuto", dunque, trae origine dal greco antico, precisamente da "homoteleuton". È composto da due parti fondamentali: "homo-", che significa "uguale" o "simile", e "teleuton", che deriva da "telos" e vale "fine" o "conclusione" ('uguale fine', 'uguale conclusione'). Questo ci dà un ‘indizio’ preziosissimo: l'omeoteleuto si riferisce a una somiglianza o uguaglianza di “qualcosa” alla fine della proposizione. Immaginiamo, per esempio, di avere due fili che, pur partendo da punti diversi, si intrecciano perfettamente alla fine; ecco, questa, potremmo dire, è l' “essenza” dell'omeoteleuto.
 
Questo si palesa attraverso la ripetizione di suoni identici o simili, soprattutto alla fine di parole vicine. L’omeoteleuto, però, non è solo un caso fortuito, ma uno strumento potentissimo, specialmente in ambito poetico, retorico e letterario, messoci a disposizione dalla linguistica per dare un tocco di stile ai nostri scritti o discorsi. Pensiamo, infatti, a una poesia in cui le parole alla fine dei versi suonano come una melodia armoniosa: è la magia dell'omeoteleuto. Uno degli esempi più celebri di omeoteleuto si riscontra nella "Divina Commedia" del sommo poeta (Inferno, canto V): "Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona”. In questi versi le parole "perdona", "forte" e "m’abbandona" finiscono con suoni simili creando, così, un effetto di rima che enfatizza la musicalità e la drammaticità del momento.
 
Anche nel campo retorico – come dicevamo – l’omeoteleuto può farla da padrone. Le famose parole di Giulio Cesare "veni, vidi, vici" sfruttano la ripetizione del suono "i" per rendere la sua affermazione incisiva e facilmente “ricordabile”. Questa figura retorica, insomma, non solo cattura l'attenzione, ma rafforza anche il messaggio, rendendolo indimenticabile. Ma attenzione, c’è un però.
 
L'omeoteleuto può avere anche un lato... insidioso. Nei manoscritti del Medio Evo, per esempio, la ripetizione di suoni simili poteva portare a errori di copiatura. Immaginiamo un amanuense che deva trascrivere la frase "la gatta corre nel campo e caccia il topo che salta nel campo". È molto facile che, essendoci campo e campo, il copista possa omettere la seconda occorrenza di "nel campo", scrivendo, solamente, "la gatta corre nel campo e caccia il topo che salta".
 
Nella letteratura moderna gli scrittori ricorrono all'omeoteleuto per creare effetti stilistici particolari. In una frase come, per esempio, "giocava con il gatto sul prato e subito scattò come un matto", le parole "gatto" e "matto" condividono il medesimo suono finale "-tto", conferendo un ritmo piacevole e una certa musicalità alla narrazione. Per concludere queste noterelle diciamo che l'omeoteleuto è una figura retorica affascinante che, pur essendo spesso nascosta, gioca un ruolo primario nella nostra comunicazione quotidiana e no. Che si tratti di poesia, discorsi retorici o semplici errori di copiatura, adoperare (e riconoscere) l'omeoteleuto può arricchire il nostro linguaggio e renderlo più “musicale”.
 

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