Scritto da © Fausto Raso - Lun, 29/10/2012 - 18:49
Gli amatori della lingua italiana, dell’etimologia in particolare, sanno benissimo che i vocaboli o, se preferite, le parole, nel loro mutamento di significato, per svariati motivi possono finire con l’indicare cose diversissime da quelle che indicavano un tempo, e giungere persino ad esprimere significati opposti. Non ha fondamento alcuno, quindi, l’opinione – assai diffusa – secondo la quale tutte le parole conservano nel tempo qualche sentore del loro significato “primitivo”. Non a caso abbiamo pensato di titolare questa nostra modesta chiacchierata “aritmetica sravagante”, e il perché lo scopriremo strada facendo; anche se, ahinoi, lo stesso titolo – a prima vista – ci potrebbe smentire in quanto il termine aritmetica ha conservato, nel corso dei secoli, l’accezione primaria: “scienza dei numeri”, cioè il computare secondo le diverse operazioni che si fanno con i numeri. Viene, infatti, dal greco “arithmòs” (numero). Come sia sa, però, l’eccezione conferma la regola; in questo caso la “regola” è la nostra affermazione iniziale. Una riprova?
Primo può assumere significati diversi se ci si riferisce all’ordine nel tempo oppure all’inizio di una serie. E nel determinare chi è il “primo” occorre stabilire in quale direzione si comincia a fare il computo: il Divino chiama, nel suo capolavoro, “primo” giro l’empireo, cioè quel cielo che in altre parti chiama, invece, “ultima spera”. Restando in tema, primo in greco si dice “protos”: e il vocabolo “proto” che a Venezia indicava il “primo” operaio, il capo operaio, soprattutto nelle stamperie, si diffuse in tutto il territorio nazionale con il significato di “direttore di tipografia”, grazie alla supremazia esercitata dalla città lagunare nell’arte della stampa e del commercio librario per tutto il XVI secolo. Un composto di “protos” è il “protagonista” il quale nel dramma antico era il personaggio “primo” (e principale); il secondo era il “deuteragonista” e qualche volta si arrivava al terzo, cioè al “tritagonista”. Oggi, con sempre maggiore indifferenza, si parla di “diversi” protagonisti e di protagonisti “principali”. Il significato primitivo del termine, quindi, è andato a farsi friggere con buona pace dei puristi della lingua.
Ma vediamo di piluccare qua e là allo scopo di scovare parole “numeriche” che hanno perso il loro significato originario. Vogliamo vedere alcuni esempi di vocaboli che hanno in sé il numero ‘tre’ solo a... parole? Ecco il “trespolo”, che oggi può avere anche quattro gambe, ma in senso proprio ne ha solo tre, perché è formato con gli stessi elementi o componenti di “treppiedi”. E che dire della “tramoggia” che, stando all’etimologia, era un recipiente che conteneva “tre moggi”? Viene, infatti, dal latino “trimodia” (tri, da ‘tres’, tre e “modius”, moggio). Ci sembra interessante ricordare che la tramoggia era anche la cassetta dove venivano riposti, in attesa di essere presi in esame, gli scritti pervenuti all’Accademia della Crusca.
Qualche esempio con il numero “quattro”. Il quaderno è, in senso proprio, un foglio intero piegato in quattro parti (dal latino “quaterni”, a quattro a quattro): secondo l’etimologia sarebbe, per tanto, abusivo parlare di un quaderno di 48 e 32 pagine. E il quadrante dell’orologio? Ora indica la mostra dell’orologio con l’intero circolo delle 12 ore, anticamente, invece, era davvero il “quarto” di circolo o poco piú, che basta per segnare le ore nelle meridiane. Mentre il quadro, stando, all’etimologia, dovrebbe essere una figura di quattro lati: oggi si parla di “quadro ovale” e si è dato al termine il significato generico di “superficie dipinta”, qualunque possa essere la sua forma. Anche i verbi “squartare” e “squarciare”, diretti discendenti del latino “quartus”, hanno sfumature diverse: con il primo si pensa ancora, sia pure approssimativamente, a una divisione “in quattro” parti; con il secondo, invece, possiamo pensare a una lacerazione che può produrre anche moltissimi pezzi minuti.
Il mese di settembre – sempre in tema di “aritmetica bislacca” – mostra nel suo nome una traccia di quando, in tempi ormai lontanissimi, era il settimo mese dell’anno. Un’origine del tutto diversa, invece, quell’incongruente espressione “oggi a otto”, per dire “fra sette giorni”: è un residuo del metodo secondo il quale i Latini per indicare un periodo di tempo contavano sia il giorno di partenza sia il giorno di arrivo. Da mezzogiorno di domenica, per esempio, a mezzogiorno della domenica successiva corrono, esattamente, sette giorni; se contiamo, però, la domenica iniziale e quella finale i giorni presi in considerazione diventano otto. Da questo conteggio “errato” è nata , anche, la ridicola espressione “da qui a otto”.
Abbiamo fatto pochi esempi ma sufficienti, riteniamo, per dimostrare la bizzarría di certa aritmetica.
Fausto Raso
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