Scritto da © Fausto Raso - Mar, 31/07/2012 - 22:12
Apriamo queste modeste noterelle con alcune divagazioni linguistiche cominciando proprio dal termine… divagazione. Divagazione, dunque, è un deverbale, vale a dire un sostantivo generato da un verbo, nella fattispecie il verbo “divagare”, per l’appunto. Quest’ultimo, a sua volta, viene dal verbo latino “divagari”, composto con il prefisso “dis-” ( ‘separazione’, ‘allontanamento’) e con il verbo “vagari” (vagare) e alla lettera significa “andar girando qua e là senza una meta”. La divagazione, per tanto, è un allontanamento dalla via intrapresa per gironzolare qua e là e per questo motivo, con il trascorrere del tempo, ha acquisito il significato, non comune, di “divertimento”, di “svago”. “Divertiamoci”, quindi, con alcune considerazioni sulla lingua.
Chi non conosce il significato di “rivale”? Se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana e leggere: “chi è competitore geloso e invidioso di qualcuno, specialmente in amore”. Gli innamorati respinti perché preferiti ad altri conoscono bene questo termine che ci riporta ai tempi in cui la vita si svolgeva in riva a un fiume, a un ruscello. Rivale, infatti, non è altro che il latino “rivalis”, derivato di “rivus”, ruscello e letteralmente vale “che usa lo stesso ruscello”. Chi abitava, appunto, presso un corso d’acqua guardava con sospetto chi si stabiliva sulla sponda opposta perché gli poteva “rubare”… l’acqua, indispensabile per vivere e diventava, quindi… rivale. Di qui, per estensione, il significato di “competitore”, “concorrente”, “antagonista”.
Dal rivale passiamo a un altro termine a tutti noto, l’ “antenna”, parola attualissima considerata la presenza massiccia delle antenne televisive che fanno bella mostra di sé sui tetti delle nostre case. Qui – a nostro avviso – il discorso si fa più interessante perché ci sono due scuole di pensiero circa l’origine della parola. Alcuni studiosi di etimologia (la scienza che studia la “nascita” delle parole) fanno derivare il termine dal nome dell’antica città della Sabina, Antenne, così chiamata dal latino “ante amnem”, ‘davanti al fiume’. Da questa città veniva, infatti, il legname adoperato per la costruzione delle antenne delle navi. Altri, invece – e noi, modestamente, concordiamo – connettono il termine con il verbo “tendere”: l’antenna si “tende” verso l’alto a captare le onde sonore o le immagini. Per questa spiegazione non occorrerebbe neanche scomodare l’etimologia. Non è facile, invece, spiegarci la presenza del prefisso “ante-” che, certamente, è la preposizione latina “ante” (davanti). Davanti a cosa? Onestamente non siamo in grado di dare una risposta. È certo, invece, che i naturalisti chiamano “antenne” quelle protuberanze di cui sono dotati moltissimi insetti e che si “tendono” a captare i suoni e gli odori.
Divagando divagando, siamo giunti al rancio, un’altra delle moltissime parole omografe ed omofone (stessa grafia e stesso “suono”) di cui il nostro idioma è ricco. Questo vocabolo può essere, innanzi tutto, sia sostantivo sia aggettivo. Nel secondo caso è l’aferesi di “(a)rancio”: color dell’arancia, quindi sta per “arancione”. C’è da dire, però, per “onestà linguistica”, che il suddetto aggettivo viene adoperato, per lo più, in poesia: difficilmente uno scrittore lo userebbe in una prosa. È anche aggettivo quando viene adoperato nell’accezione di “rancido”: quel formaggio è rancio, cioè rancido. Come sostantivo, invece, sta per “pasto dei soldati”. L’origine non è schiettamente italiana ma spagnola: “rancho” (‘stanzone di persone’). I militari non consumano i pasti in comune in uno “stanzone”?
Terminiamo queste divagazioni occupandoci di un capo d’abbigliamento femminile: la gonna. Quest’indumento, dunque, all’inizio, non era riservato esclusivamente alle donne in quanto indicava vari tipi di manti o di tuniche, maschili e femminili, diversi secondo il luogo o il tempo. Oggi è rimasto solo per l’abbigliamento femminile e sta ad indicare la sottana delle donne lunga fino al ginocchio. Per gli studiosi di lingua il vocabolo, infatti, va connesso con “genu” (ginocchio) in quanto è un indumento che ricopre il… ginocchio. L’abito talare, invece, secondo la credenza comune è riservato ai religiosi; non è cosí. Lo possono indossare anche le donne, anzi lo indossano nelle serate di gala perché è una veste lunga fino ai talloni, è, insomma, il classico “abito da sera”. Viene dal latino “talare(m)”, da “talus” (tallone).
Fausto Raso
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