Ciononostante, mi prese per mano, cercando di darmi quella sicurezza che era nello spirito, ma non nel suo fragile cuore. Qualcuno ci notò: “Prego, signore,” e ci dava la mano “Dionilla, allunga il passo.” Ci, trovammo, così sulla vettura.
La mamma ringraziò, dicendo: “La ringraziamo tanto; le confesso che ero un po' spaurita, per le ragazze.”
“Signora, ho fatto il mio dovere. Guardai la sua uniforme che, mi giunse come un lampo fra gli ultimi bagliori. Egli se ne avvide... Quasi ignorando che ero con mia madre, carezzò i miei capelli; il foulards scivolò per l'emozione... Nel rendermelo, tratteneva la mia tra le sue mani, sembrava dirmi: “La divisa che porto?... Sciocchina è un espediente.” E chiuse gli occhi... Era un suo tic, ma anche un modo inequivocabile, per dirmi: “Raccogli solo il frutto dei miei sogni.”
Ed io capii... E noi capimmo che quel suo lavoro lo aveva scelto. Fui attratta dai suoi occhi color del cielo... Gli tendevo la mano, come ubbidendo ad un dolcissimo richiamo. Ed egli si rivolse alla mia mamma con l'espressione dolce, ma febbrile di chi sa che è prezioso ogni momento: “Venite, vi cerco un posto, idoneo alle signore.” Per una istintiva fiducia, la mamma gli diceva: “Accompagni Dionilla... Io vado a vedere dove si è cacciata l'altra figliola.” In quell'istante, la mia sorellina veniva, l'aria affranta, di chi vuol dire: “Mi avete abbandonata...” La mamma l'abbracciava... L'agente fece un sorriso e, volendo intrattenersi qualche momento, le diceva: “Ho udito il vostro nome, sorelline...” Mia sorella rispose: “Con chi abbiamo l'onore di parlare?”
Denise posò lo sguardo sul doppio petto blu, con l'aria diffidente di chi dice: non sono nata ieri, ma per ora, ho altro per la testa.
Soffrivo per l'atteggiamento spavaldo di mia sorella; era come volesse dirci: “Avete piegato la volontà di chi vuole ancora stare in mezzo ai vivi.” La mamma sopportava, dignitosamente.
Con il suo completino alla sahariana, Denise si atteggiava ad una signorina dell'alta società, insofferente alle regole. Guardavo la sua silhouette, e con molta tenerezza, le stavo dicendo: “Siamo agli antipodi, sorellina, ma il mio cuore lo sa che...” Non conclusi il pensiero, che la vidi, ginocchioni sulla poltrona; con disinvoltura la apriva e si metteva sdraiata. Si prendeva dalla mamma, il primo rimprovero, di quel giorno: “Denise, che modi sono... Chiedi scusa ai signori che ti sono di fronte...” “Pardon,” disse, sofferente, non nascondendo una certa ironia. Istintivamente, li fissava...
“Denise che ti succede?”
Rispose: “Proprio tu mi fai questa domanda che provieni dal regno delle nuvole?”
Mi sembrava di udire la sua intima reazione nei riguardi della coppia: “Chiedere scusa a chi non può capire?... Ma dove siamo? Nei nostri tempi o, nel medio evo?” I due innamorati si guardavano, intanto, come trasognati: spersi, ma non spauriti. Lei era leggiadra, esile... I suoi capelli lunghi di un castano dorato, scendevano casti fino al collo, risalendo alla nuca; la fronte era spaziosa pallido il volto... Lui, leggermente più alto, era minuto, imberbe, dall'aspetto monastico; aveva l'aria costernata di chi non sa cosa gli riservi il destino. Si guardavano entrambi con dolcezza, come isolati dal nostro contesto... Lui le stava dicendo: “Non temere di essere sperduta; ovunque andremo, per le vie terrene, saremo ombra e mistero.” Per distogliere l'attenzione di mia sorella dai loro volti, mi risolvevo a intrattenermi con loro: traevo dal borsone, le caramelle al rabarbaro, e gliene offrivo a Francisca, ella sollevò lo sguardo... Confusa, mi disse: “Chiedo scusa... Che cosa sono?” Sassolini, avrei voluto dire, ma feci appena in tempo, ad autocontrollarmi.
Rispondevo, pacata: “Noccioline...”
Subito dopo, si rivolgeva al suo innamorato, quasi chiedendo scusa, per essere andata, anche se per un solo istante, controcorrente: “Leo, Leo, Leo... Aiutami a fermare il pettinino; lo sento scivolare.” E Leo l'aiutò. Ritornai nel mio tempo; chiedevo a mia sorella: “Che ore sono?”
Rispondeva: “Non so; il mio tempo s'è perso insieme al tuo, che s'è bloccato al Fu Mattia Coppola.” Balbettando, le dissi: “Cosa, vuoi dire?...” Ella sorrise come, per dire: lasciamo perdere...
“Denise,” le rispondevo, “pensi non mi sia accorta della loquacità del tuo silenzio?”
Rispose: “Non sapevo fossi così eloquente; ti atteggi a saggia perché sei sostenuta dagli sguardi indiscreti del signor... Tal dei Tali... L'allusione al maestro, era evidente. Io sentii una vampata di rossore... La mamma, la vedemmo madida asciugarsi il sudore con l'ampia manica...
Ciononostante, per non mandare in tilt il giorno e l'ora di quel viaggio, ci riprendeva in tono severo, ma moderato: “Controllatevi!...”
Proseguimmo per un certo tratto silenziose.
Poi Denise continuò: “Per le tue frenesie, mi trovo in un pasticcio; tu lo sai che aspettavo una risposta ed anche lui. Ora, quando lo vedrò, cosa gli dico? O! Ma certo... Tu vivi nel passato che non ha conseguenze; non t'importa se altri può fraintendere.
Ma voglio far sapere ai presenti dove è che andiamo... Forse contro il tempo...”
Ma ai due fidanzatini, nulla importò sapere... Crogiolati in un intimo abbandono, e sembrava fossero in un altro spazio. Di fianco a noi, seduti ai loro posti, Angelini e il collega erano, invece, presenti.
Denise parlava a briglie sciolte, ma moderando i toni. Voleva che qualcuno la assolvesse dai suoi sensi di colpa. E il maestro era lì, ad ascoltarci, mentre il suo amico gli diceva adagio: “Ascolta, ma fa in modo che non trascendano...”
Restavo senza parole... Mi sembra ancora di sentirla, Denise: “Non ho segreti e voglio che si sappia dove siamo dirette. Andiamo alle porte di Cremona, in un paese che sa di leccornie, a rendere gli omaggi ad un zia... Contessa, ma di umili origini... Che non esiste... Perché se ci fosse, avrebbe...” “Denise, amore!... Non mi spaventare....” La voce della mamma fu una sferzata, perché ella si fermò: “Mamma, perdono... Ma voglio che si sappia che la zia, avrebbe duecento anni...” In tono severo, moderatamente dolce, la mamma le diceva: ”Stai calma; ti perdono.”
Quell'inatteso perdono, sortì l'effetto opposto; si rivolse alla mamma, come mai sarebbe stato nelle sue intenzioni: “Adesso, non mi dai quel famoso ceffone?”
Nostra madre si alzò e solennemente, le diede due piccole sberle, come per dirle se me li chiedi, ne hai bisogno...
Per un certo tratto, proseguimmo senza osare guardarci... Poi le nostre espressioni assunsero un'aria di sfida... “Perché mi guardi...? Io non sono una santa... Non reagisco alla mamma, ma ti dico... Che sei una visionaria perché tu asserisci perfino di vederla quella zia, qualche volta anche di fronte alle mie amiche... E per favoleggiare ti inventi la tejera e il colletto di pizzo. La mamma, malgrado quel che si vocifera, non è ancora allo stadio delle visioni, però tu la coinvolgi, la trascini... Ella non dice, chiude gli occhi su quella malattia di cui sa bene...”
“Mamma!” Vedemmo nostra madre impallidire e, tuttavia... Non riuscii a trattenermi: “Non ti permetto di offendere nostra madre; se non avesse dimostrato una estrema lucidità, Tu saresti ancora in collegio.”
Denise, non obiettò...
Vedemmo nostra madre ancora impallidire, coprirsi il volto e dire: “Mio Dio, dove ho sbagliato?!”
Mamma, noi ti vedemmo reclinare il capo... E fu il panico per le tue figliuole. Dopo di che... Non saprei dire quel che accadde.
Forse un sonno profondo mi rapiva: io mi sentivo rea di non averti soccorsa al tuo primo pallore, e tu, mi eri davanti, il capo reclino... Furono momenti tremendi, in cui lo strazio, prendeva il sopravvento... No, non c'era più tempo per capire...
Saggio di un racconto autobiografico da parte dell'artista Dionilla Perliz (Nilla Pizzi).
Mi propongo di raccontare un po' per volta per non appesantire la lettura.
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