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Dionilla racconta - L'incontro con Liutprando

Eravamo salve... Finalmente libere da indagini che avrebbero ulteriormente, indebolito ogni nostra difesa. Non c'era voluto moto per capire quali misure preventive, l'ente ospedaliero aveva programmato per il nostro e l'altrui bene. Alla lettura del verdetto che dichiarava la nostra integrità e lucidità, mentale, la mamma ebbe un respiro, e nel rivolgere la propria riconoscenza al giovane che aveva sfidato i dogmi, le si inumidirono gli occhi. Ella riacquistava fiducia nelle attitudini umane. Così, rivolta a Denise, le diceva: “Sono felice tu l'abbia conosciuto; forse il Signore l'ho ha mandato sui tuoi passi perché tu possa rincontrarlo.” Mia sorella rispose: “Sai, che aspettavo una risposta dal ragazzo più bello... Ma forse, oggi comprendo, che avere un fascino, vuol dir ben altro.”

Mamma sorrise.

Rivolgemmo il pensiero a zia Bettina.

“Ella ci aspetta”, disse nostra madre, quasi mortificata... Ma forse non è tardi per dirle: “Noi veniamo se ci indichi la strada.”

Si riprendeva il treno per ritornare a casa. Mamma ci disse: “Saliamo adagio, prendiamoci per mano... Che di stranezze, oggi, ne abbiamo viste abbastanza.” Non c'erano i pendolari perché si era in pieno pomeriggio. C'erano due indigenti: lo capimmo dall'espressione del vecchietto; egli, barcollando, si avvicinava a nostra madre, come fosse al corrente delle sue vicissitudini: “Domando scusa, ci sarebbe un posto?” “Venite”, rispose nostra madre, “sedete pure alla mia destra.”

Denise ebbe un sussulto, ritornando la ragazza impaurita di appena un anno fa, che non sapeva cosa fosse lecito, riguardo agli argomenti di igiene; e la rividi, mentre mi chiedeva: “Cosa pensi, Dionilla del contagio?” Le rispondevo: “Quello che pensi tu... perché di mani, ne abbiamo strette ben poche...” Sentivo, attraverso mia sorella riaffiorare i caratteri ereditari. Quell'antica malattia che per qualche tempo era stata in incubazione, si risvegliava, lasciando allo scoperto, la nostra incapacità di reagire. Era il male di non capire; si esplicava in ritmi alterni, negli stessi, identici periodi. “Sorellina, mi presti il tuo giornale?” Denise, non mi rispose. Rimaneva immobile restammo entrambi con lo sguardo perso, le mani chiuse a pugno, cercando di evitare quel vecchietto. A redernci così vulnerabili, non erano tanto i suoi sdruciti panni, quanto le numerose escoriazioni sulla pelle.

E prevedemmo il peggio...

Quando, improvvisamente, con il bastone infetto quel vecchio osò toccare il delicato piede di mia sorella. Si alzò:

“Come...” Stava per dire... Ma pronunciò soltanto, le lettere iniziali; un ricordo tremendo la fermava. Ella ricadde sulla poltroncina, tenendo gli occhi bassi...! Ma il vecchietto, voleva ben sapere... Perciò l'apostrofò benevolmente: “Che cosa mi vuoi dire?” Denise rispose, alzando appena gli occhi: “Nulla.” Ma quel vegliardo, non si die' per vinto: “Ti ho fatto una domanda.” Denise, mortificata, ma sollevata a un tempo, rispose: “Chiedo scusa; deve sapere che sono recidiva di un male oscuro: sì, insomma, la paura di contagiarmi. Non intendevo offenderla... Ma sappia... che ho paura, perfino del mio sangue. Ho visto le lesioni sulla sua pelle... E allora, mi son detta, che anche il suo bastone, se tocca coi suoi piedi... potrebbe essere infetto. Oh.... mi perdoni.”

“Ti perdono” rispose. E ci elargiva il suo sorriso luminoso mentre ci guardò con un sorriso pieno, rasserenante... Guardammo nostra madre... Era serena. Ci scambiammo uno sguardo, come per dire: pensi la stessa cosa? Ed egli se ne avvide. Rivolto ancora mia sorella, le disse: “Posso farti una domanda?”

“Certo”, rispose.

“Cosa pensi del sangue?”

Mia sorella rispose: “ È sacro; nostro padre, i nostri nonni sono stati vittime di crimini atroci; che non conobbero la legge degli uomini. Per questo, noi sappiamo che il sangue è uno, però le colpe degli uomini sono diverse. E del sangue dei mostri, si ha ribrezzo.” Il vecchio tacque turbato per le parole così insolite di una ragazzina. Le disse ancora: “Perché hai paura del tuo sangue?” “Pardon” rispose, “mi sono sbagliata. È impressione del male.” Il nonnino rimaneva ammirato... E tuttavia, le chiese: “Perché il sangue, ti sembra malato?” Mia sorella cominciava a sentirsi sotto il torchio. “Non so se sia malato... ma, comunque, potrebbe essere intaccato.” Il vecchio, a questo punto, stringendola al suo cuore, ma idealmente, le disse: “Grazie, Denise, mi hai detto, finalmente, che hai paura del male, non degli affetti. Sappi che il sangue è l'essenza della vita e non si infetta, né si contamina. Le malattie e le piaghe, sono la reazione alle offese; potrebbero, contagiare, ma solo il fisico: nel mio caso il sangue, ha liberato le mie piaghe... Ora sono guarito...”

Denise, levò lo sguardo: “Vi ringrazio; mi avete illuminata.” Il vecchietto sorrise: “Questa lezione, fuori dall'ordinario, te l'ha impartita il nonno.” Denise levò lo sguardo. “Dunque, voi siete nostro nonno?” “Se così fosse?” “Vi accetterei, perché siete suadente.” “Ma anch'io, avevo bisogno di essere rassicurata.” Alzai la mano, silenziosamente. Ed egli se ne avvide: “Dionilla,” disse: “che cosa mi vuoi dire?”

“La ringrazio, per aver capito, che voglio farle una domanda, un po' diversa, ma correlata al sangue. Vede... Io ho il terrore delle malattie, quelle silenti... Perfino delle mie, che potrebbero contagiare chi non le sa. Mi spiego meglio: non so in quale età, io seppi d'essere malata di quella malattia che fa tanto paura: la TBC. Le dico che ho paura, di contagiare e di essere contagiata. Che cosa pensa? Le malattie croniche possono contagiare?”

Rispose: “Quel che penso è relativo... Devi sapere, che in ogni nostra scelta, è sempre l'amore, che ci sorregge... Per cui, se ami intensamente, non hai paura della malattia.” Risposi: “Mi perdoni... Forse, non riesco a spiegarmi... E per la prima volta provai quell'imbarazzo che vien denominato “timidezza”. “Ti ascolto; non temere di dirmi tutto...” “Ecco, i malati, io li voglio bene, più di me stessa; ma mi succede di pensare che la malattia sia altro dalla persona, non un tutt'uno... Perché ognuno di noi ama se stesso.” Il nonno, mi rispose: “Complimenti... Ti sei laureata?” Con un sorriso rispondevo: “Noo...” E mi sentii arrossire. Il nonno: “Ti ho fatto veramente un complimento, perché non è da tutti capire quel che bisogna. Tu mi stai dicendo, che in ogni rapporto col malato, c'è sempre una finestra dalla quale non ci si affaccia, perché si teme sempre di far del male a chi ci è vicino. Ma Dio ti esorta a vivere... Esser di larghe vedute... Aggiungi più finestre all'esistenza; tu sai che nella luce dell'amore, il male perde la scommessa.” Ringraziavo sentendomi sollevata. Ed egli mi sorrise.

Ci fu una pausa intesa, durante la quale sentii il vecchietto prendermi per mano: “Forse domani, ti troverai ancora, nelle condizioni, di chi non desidera stringere una mano... Ma sappi che il perdente, non cerca mani, stinte dal bucato, cerca la voce dell'uomo.” Mi persuasi... Ma insieme a mia sorella, notavo che il nonnino era disparso. Il cielo, s'era fatto pecorelle... “Ma come...? Ora che siamo più tranquille...” La mamma era serena... Non osava guardar dal finestrino... Come se si affidasse alla sorpresa. E forse ci stavamo chiedendo: “Come mai non ci chiede di fare uno spuntino?

Tacitamente ci allungammo un po' per prendere il borsone, quando una casa, forse un casolare, apparve in lontananza, come a squarciare la foschia.

“Mamma, guardate!... Non è la casa della zia?” La mamma guardò: si fece il segno della croce. “È proprio quella,” disse “Non ci sono parole... Oggi, mi sembra d'essere in un sogno.” Sorgeva alta e quasi come un'ombra, nella serenità crepuscolare, la casa col torrione di zia Evelina. Era come adagiata sulla radura di una verdeggiante collina Ed era intatta; sembrava un casolare di marzapane nella sua tortiera.

Ci rivolgemmo entrambe a nostra madre.

“Ti prego, non scappiamo... ma è necessario, aver qualche ragguaglio... C'è poca gente... Ma saprà qualcuno dirci qualcosa... Come si fa a raggiungere la collinetta?”

Adolph, riapparve, come per magia... E sorridente, ci disse: “Alla fermata prossima discendete.”

La mamma, frastornata, gli disse: “Perdonate... Ma non sappiamo ancora, che cosa ci succede. Siete con noi? Cosa bisogna fare?”

Rispose con affetto e dandole del tu: “Non avere paura; procedete. La signora che aspetta nel paese è una parente; il sangue ci appartiene; l'affinità ci lega. Altri parenti, poi, vi faranno da guida. Non siete sole.” Il treno si fermò; discendevamo: si era in quel di Cremona, nel paesino di Feltro...

*continua*

 

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