La piazzetta apparì, come spaesata... confusa... Perché non si vedeva mai nessuno. La mamma, si fermava, con noi sperdute, presso un muretto per accertarsi che tutto fosse in ordine, nella borsa. Tutto era come prima; nel borsellino, c'erano quei centesimi e quelle lire, frutto di quel diletto, ereditato dalla propria mamma. “Mamma ricorderò per i miei restanti giorni, quanto amore mettevi in quelle cure, che furono, dopo la malattia, seguita al lutto, una ragione in più, oltre le tue creature, per dire son partecipe alla vita.”
La piazzetta, linda, ma con due case intorno... e disadorna, s'apriva in un viale. In quel vialetto, ci guardammo intorno... C'era qualche passante che ci notava senza dir nulla. Denise notò una insegna luminescente, e ci diceva: “Guardate, sembra proprio quella di un albergo.”
Fu così, che dall'altro lato della strada, ci trovammo di fronte a una casetta del primo novecento, in stile liberty; era a due piani; l'insegna era soltanto quella di un motel. Denise ed io stavamo perdendo il nostro ottimismo, ma non volevamo palesare il nostro sgomento.
Fu invece proprio nostra madre a darci una scrollatina: non ci perdiamo d'animo; sostanzialmente non cambia molto. Prepariamo un discorso a chi verrà aprirci, diremo: “Domando scusa; sappiamo che è un albergo per camionisti, ma ci manda Astolph...” Dopo di che, ci fu un'intensa pausa. “Sediamoci un momento, su quel muretto; ci sono cose che la mamma, ancora non ha avuto il tempo...”
Siedevamo. Così mamma parlò, dicendo cose che sapevamo superficialmente. Sappiate che che quel vecchietto, io lo conosco; lo incontro anche a Vairano... persino l'altro ieri... Ho cercato parlarvene; accennare alle sue vicissitudini... Alla sua impresa di onoranze funebri... Ma tu, Dionilla, tremavi come un fiore... e tua sorella idem... Mi sembrò un giorno, sull'orlo del collasso; allora, mi son detta: “Soprassediamo...”
“Mamma...” le chiesi con voce velata: ”Ma quel vecchietto, ch'era con noi sul treno, e ch'è anche nostro nonno, Tu da bambina, l'hai conosciuto?” Rispose: “No... mio padre, nel parlarne, chiudeva gli occhi; non riusciva a spiegarsi perché avesse scelto un lavoro così ingrato. So quanto il mio babbo fosse buono... Ma la sua innata tristezza, non gli lasciava vie di uscita... Egli vedeva nel suo genitore l'uomo cocciuto, che per far del bene, trascurava i propri figli. E mi ricordo quello che diceva: ”Papà gli chiesi, che avvenire avremo, con il lavoro che ti sei scelto?” Non mi rispose, per reconditi motivi. Aristide, il fratello di mio padre, era, invece, diverso e serviva il genitore con devozione... In seguito alla guerra, era tenente, contrasse una malattia, per la quale, preferì far disperdere le proprie tracce. ”Mamma,” le domandammo con voce velata: “quell'uomo era il lebbroso?” Annuiva...
Ci alzammo; cercammo il campanello di quella casa bianca, in stile liberty, con le finestre ad arco, semichiuse e le tendine lavorate in pizzo; sembrava avvolta in un abbandono sepolcrale... Notammo il glicine avvizzito, a ridosso del portone, arrampicarsi fino ai balconcini esigui, in ferro battuto. Lo scoramento prevalse, quando notammo che era impossibile suonare... Dall'archivolto pendeva solo un fil di rame. Vinte dallo scoramento, stavamo per ritornare sul luogo di partenza e riprendere il treno, quando qualcosa accadde: vedemmo un camion uscire dal garage adiacente. Il conducente ci vide; discese. Veniva verso di noi con un andamento lento, solenne, da immaginarlo in abito sacerdotale.
“Cercavate di noi?”
“Sì, pressapoco.” La nostra timida risposta, non lo colse di sorpresa. “Immagino...” Ci disse... “Verrà la mia signora...” Disparve. Non sentimmo le chiavi girar nel chiavistello, ma ci apriva una donna, dal bel sembiante, che rimaneva erta sulla soglia, come una Madonna di gesso. Ci salutò con aria di fanciulla, e noi capimmo che l'impedimento era solo alle gambe. “Salve sono Benedicta, Hearlz; in cosa posso servirvi?” Aveva all'incirca, quarant'anni, un viso pieno e morbidi capelli, castani, con varie sfumature, simile a piume di pettirosso.
Nostra madre: “Voglia scusare la nostra intraprendenza. Non è un caso se ci siamo incontrate. Mi pare di conoscerla... La nostra visita in codesto borgo, ha una finalità: raggiungere la casa sulla collina, ma non sappiamo come fare e allora, Le chiediamo...”
Capimmo che nostra madre stava seguendo il proprio iter emotivo, quello per il quale prima delle domande, vengono le parole. Benedicta, sorrise: prego, venite. Vi dirò come fare... Vi fermate?
Rispondevamo: “Ci fermiamo; grazie.” La sua disinvoltura, era e coinvolgente; ella sembrava un angelo di una età indefinita, senza tempo. Ci disse: “ Scrivo sull'agendina i vostri nomi, ma solo per formalità, venite nel soggiorno. Entrammo in una sala austera ed accogliente a un tempo. Nel mezzo c'era un grande tavolo… Una grande luce si proiettava alla parete di fondo: veniva da un candelabro; nella morbida luce, serafico ci apparve un volto familiare, conosciuto da poco. Il grande quadro alla parete, ci apparve così vero, da farci trasecolare.
“Chi era?” domandammo... Ed ella ci rispose: “Il mio consorte.... Ma non è morto. Egli è un sacerdote.” Le sfuggiva una lacrima... E noi cogliemmo il pianto a stento trattenuto... La nostalgia, la fede nel ritorno.
Scriveva i nostri nomi come già li conoscesse... Ci chiese: “Cercate la casa della contessa?” La mamma la guardò, palesando la sua meraviglia.
“Non vi sbagliate... Però vi parlo come a una sorella... Io non so dove l'ebbi conosciuta la zia Evelina... Mi ha invitata a trovarla perché vuole riunire la Famiglia. La mia secondogenita la vede e mi dice: somiglia alla vecchietta raffigurata sulle bustine del lievito per dolci.”
Rispondeva, rivolgendomi uno sguardo amorevole: “È lei, Dionilla?”
Mamma sorrise, assentendo e presentando anche mia sorella. “Deinse e Dionilla!... Quale coincidenza! Dove è che vi ho incontrate?” Nostra madre sentiva di volerle bene, e incoraggiata dalla sua cordialità le dava del Tu; le faceva una richiesta: “Ti prego, puoi parlarci, di zia Evelina; immagino che anche a te che venga parente.” Benedicta, le rivolse un mesto sorriso: “Evelina Teobaldi? Io la conosco; mi è parente perché sia lei che io, come tant'altra gente, abbiamo conosciuto le traversie riservate ai 'perdenti', a chi un regno, non ce l'ha, ma lo ritrova confidando in Dio. Dunque, sappiate che la contessina, fu la figlia di un uomo poverino che dava a un cavaliere il suo mantello, fatto di una casacca e quattro stracci. Dopodiché, il vecchio andava in Cielo per ritornare ancora, sotto le spoglie di un giovane, sul cui stemma appariva una Croce, il distintivo di una nuova contea. Ogni particolare, lo saprete, strada facendo. Ora vi dico solo... Che quel giovine ebbe due nipoti: l'uno, Yoel, ramingo, andò per proprio conto, dimentico dell'avo; l'altro, Amerigo, esule, anche lui, aveva il suo castello, di quel ch'era suo, ne fece dono... Ma mi fermo, se no... Perdete il filo...”
E invece continuò: “Evelina fu figlia di Amerigo; andò in sposa ad Evenanzio Torricelli... Conoscerete la nota canzoncina... Mi fermo... Più tardi vi racconto un'altra storia: accomuna i due coniugi Evenanzio ed Evelina al mio consorte.”
A dire il vero, eravamo molto stanche... Mamma fece un sospiro, come per dire: anch'io avrei tante cose da dire... A quel sospiro, si aggiunse, uno sbadiglio: quello di due fanciulle, desiderose di fare un riposino. Benedicta, guardando sul suo polso un orologio virtuale, ci diceva: “Immagino dobbiate desinare...
Ma non mi trovo nulla...” Rivolta a noi ragazze, ci fece una preghiera: “Andreste a comprare qualcosa?”
“Certo!”
“Vi preparo un biglietto.” Strappava un foglio dalla sua agendina: a caratteri grandi elementari, noi la vedemmo scrivere, senza sapere di preciso: acqua, pane, solo due forme; confetti contro la stitichezza.
Maternamente, dandole del tu, mamma, le chiese: “Hai l'intestino pigro?”
Rispose: “Da quando ho subito l'intervento, sono una statua di gesso.”
Mamma ci diede il suo portamonete, dicendoci, in sordina: “Aggiungete qualcosa...”
Raggiungemmo in un volo il piccolo negozio, indicato.
Era un minimarket ed al pane e l'acqua aggiungevamo il caffè, il riso e qualche confettura. Eravamo alla cassa; con aria ironica, il gestore, un uomo sui quaranta, un po' pelato, ci disse: “Brave fanciulle da dove venite?”
Rispondevamo a tono:
“Caso mai vorrà dire dove andiamo...?”
Rispondeva: “Scusate, signorine, dove siete dirette?”
Rispondevamo: “Andiamo a Cordova...”
“Eccoci...”
“Siete già di ritorno”, ci diceva Benedicta, accogliendoci in un abbraccio; “grazie di tutto”.
In quell'ampio soggiorno, provvisto di un lungo tavolo, in legno massiccio, testimonianza di una fede salda, ella depose una tovaglia ricamata molto bella; sullo sfondo acquamarina, facevano bella mostra due cigni.
La elogiammo.
“I lavori manuali,” ci disse, “furono la mia passione.”
La mamma spalmava sul panino di ognuno la marmellata di ribes...
Bevemmo un po' di acqua frizzantina, mentre Benedicta, ci diceva, ancora: ”Scusate se ve l'ho fatta comprare... Qui ci si accontenta con quella che vien dal pozzo.” Si allontanava un istante... Quasi per darci il tempo di appurare che non c'era alcun pozzo. Ritornava con un'anforetta: “È un profumo; lo preparava il mio papà. Ve la regalo insegno di un auspicio.”
La sera ci sorprese, disinvolte, parlare un po' di tutto... Benedicta non avrebbe voluto congedarsi, ma considerato che eravamo stanche, ci disse: “Domani, vi parlerò del mio consorte, della sua scelta, dei suoi suggerimenti... Adesso vi accompagno nella stanza; non vi sgomenti il senso di vuoto; è per via delle mie condizioni... perché... vedete... e sollevò la veste...” Lì per lì non capimmo e fu meglio così. Ci si trovò nel corridoio; la nostra stanza si trovava a destra, vicino ad un uscio, color rosso magenta. Nell'aprirla, ci disse: c'è solo il letto ed un attaccapanni, per rendere più agevoli i lavori di casa... Apriva... E... Sul momento, per non demoralizzarla, ringraziavamo, facendo i nostri apprezzamenti, sul copriletto bianco, realizzato in pizzo. Benché non ci fosse alcun mobile, ci saremmo subito adagiate in quel morbido letto... Sufficientemente ampio, proprio per tre persone. Ma occorreva chiedere della toilette.
Benedicta ci precedeva: “Il wc è giù”; diventava di porpora... “Però se vi occorresse, vi darò quelle chiavi; vi porterò un vasino... Quanto al lavabo, non ci sono problemi...” Ci conduceva in una stanzetta con un ampio lavabo, una specchiera; ci mostrava con l'entusiasmo di una adolescente alcune formine di sapone. “Come son belle...”
“Le preparo da me; son tutte bianche perché...” La vedemmo interrompersi e sparire. Ma ritornava immediatamente, recando un vassoio con alcune ampolle. Ci disse: “Adoro le fragranze... e preparo i saponi con il propoli o il miele vergine; aggiungo a questi gli oli essenziali, in specie della rosa e del bergamotto.”
Si ritornava nella nostra stanza; ci si guardava intorno; ed io sentivo il mio pensiero farsi un tutt'uno con quello della mamma e di Denise. Dov'è che siamo?
Sotto le coltri, ci sentimmo avvolte, da un odor di bucato e lievi fragranze.
Guardavo quel soffitto alto... Poi le pareti senza alcun arredo... E mi sembrò di essere sperduta e salva a un tempo in una stanza, senza le pareti.
Ci risvegliammo all'alba; Benedicta entrò quasi senza bussare... Ma il suo sorriso fu di auspicio.
Ci disse: “Non volevo disturbare... Ma c'è soltanto un filobus; ho tralasciato di dirvi tante cose, ma non fa niente... Mi son detta che è meglio non svelare il fine del viaggio. Vi riservo la gioia della sorpresa. La zia contessa, io l'ho conosciuta; mi ha dato il suo messaggio e son venuta.... Quanto a mio padre, del quale vi ho parlato, lo incontrerete ancora; egli intrattiene i pellegrini dicendo un requiem per tutti coloro, che non videro mai nessun amico al proprio capezzale. Egli fu un profumiere rinomato, risiedeva a Torino. Non sto farneticando; ho le idee chiare...” La mamma l'abbracciò. “Cara, sappiamo quel che altri non voglion far sapere.”
Benedicta, per il pernottamento non chiese alcun compenso. Ci diceva: “Ogni proponimento è volto ad un fine ed anch'io ho sentito quell'invito.
Io non saprei dirvi se la contrada ha un nome... Ma il piccolo comune, prospiciente alla valle, è il cuore del paese, di Feltre di Montebello.”
Ci abbracciavamo....
“Andate, dunque... A pochi passi c'è un crocevia, un'insegna e una piccola fermata.
L'autobus non tarderà. Direte al conducente: ci porti, per favore, in prossimità della casa diroccata.”
Perplesse, le rivolgevamo una domanda: “C'è un nesso con la casa che cerchiamo?”
Con un sorriso nei begli occhi mesti, rispose: “Non c'è tempo... Ma vi dirò strada facendo.”
Ci ritrovammo, in men che non si pensi all'incrocio indicato e sotto a un pensilina. Incontrammo un signore che, subito ci disse: “La corriera, purtroppo, è già passata... ma ce né un'altra tra mezzora...” Trasalimmo perché eravamo stanche; Denise emise un sospiro, dicendo: ”Che stanchezza”... Ed io convenni... “I viaggi, non son fatti per noi.”
Soltanto tu, non ti esprimevi, mamma... Ed avresti voluto. Eri il nostro sostegno e quella forza che viene nei momenti di abbandono. La corriera arrivò e quel signore, ci aiutava a salire.
Strada facendo, si rivolse a Denise che sospirava: “Lo sai dove si va?” Disse, parlando ora con noi, “O mio Dio,” rispose mia sorella, “siamo così stanche, che ovunque si vada, va bene.” Allora quel signore dall'espressione dolce, ci disse solennemente: “Siamo arrivati.” La corriera si fermò La mamma ebbe un sobbalzò... E poi si rincuorò; sentimmo il primo sole squarciar le nubi. Prendendoci per mano, seguimmo i pellegrini... Ci apparve, rasente alla strada di campagna, la casa diroccata di un'umile famiglia. Tutti fermi alla soglia, ci si prostrava alla Vergine: “Madonna degli umili, perdenti, che vedi tante cose, sorreggi chi all'oscuro di verità, soccombe.” Rivolgemmo ad alcuni degli astanti una preghiera: “Potreste dirci qualcosa?”
Si fece avanti una suora: “Non so, se avremo il tempo... Dunque, bisogna sapere, innanzitutto, che che Astolph, fu li sacerdote. E che Maria Bernadette e Benedetta, furono la stessa persona. Lei era inferma; per la sua infermità, non sempre andava in chiesa... però disse a Gesù, ti mando i miei ricami... Astolph fu i sacerdote che vide i suoi lavori... E, non vedendola se ne innamorò.”
“Signore, che cosa devo far?”
“Astolph, non si rinnega l'amore.” Confortato, Astolph, le dichiarava il proprio amore... Però, cambiava gli abiti... Sicché di notte egli era il camionista... “Astolph, perché non mi sposate?”
Le rispose, in un soffio: “Amore mio, non posso.”
“Perché somigli al parroco, che solo un giorno, vidi in chiesa?”
Egli la strinse ancor più stretta a sé e poi si allontanava.
Ma qualcuno spiava e quella notte, il camion traballò.
La suora tacque perché si era accorta che le funzioni stavano per aver luogo. Ci inginocchiammo; tante cose capimmo e non capimmo in quel giorno radioso, di fine estate. Ci ritrovammo al termine delle funzioni, ad attendere l'altra corriera. Giunse in un lampo e ci portò al paesello...
*continua*
I testi riportati sono inclusi nell'opera integrale: “Dionilla racconta”.
La protagonista Dionilla Perliz, in arte Nilla Pizzi, volle raccontarmi la propria storia per renderci partecipi delle proprie vicissitudini.
- Blog di Giuseppina Iannello
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