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Del cielo blu

Ma il cielo è sempre più blu, cantava il cantante. E ne avevo visti di cieli, io. Anzi, avevo visto sempre lo stesso cielo: era sotto che tutto sembrava un altro cielo, senza esserlo; era sotto al cielo che appariva un altro cielo che sembrava più vero dell’altro.
Ma poi come una nebbia d’allucinazione, si dissolveva, e il cielo, sotto al cielo, ridiventava quello che era sempre stato... O magari no. Magari potevamo pensare insieme al cantante che forse, magari, il cielo era effettivamente più blu. Potevamo sperarlo e tingerlo di speranza, farcelo apparire più brillante, più luminoso dentro ai nostri occhi, di quello che offriva... Dentro ai nostri sguardi gonfi di lacrime c’era più colore, più speranza di quelli di chi non sapeva piangere. Bisognava aver imparato a piangere per cogliere, finché fosse rimasto possibile, quella ipercromia dell’azzurro e cantarci sopra, come se qualcosa fosse davvero cambiato e fosse diventato impossibile ritornare alla discromia di cose come la tirannia, o il fascismo.
Poi forse, magari, era quello di Chernobyl il cielo sempre più blu. Forse, magari, il blu stonava quando attaccava i suoi accordi. Forse, il cielo era sempre più blues, con le sue dolorose dissonanze, coi suoi accordi accorati che intonavano esequie sbrigative ad albe e tramonti troppo precipitevoli per essere augurali. Forse correva troppo quell’alba; forse tirava troppo dietro al tramonto, tenendo troppo in auge quel blu che era anche il colore del disastro presumibile dietro la sua spinta ricolma d’entusiasmo. Sì, correvamo incontro all’orizzonte blu, sotto l’empireo blu, nel cielo sempre più blu, ma non potevamo scorgervi la nuance incombente del crepuscolo, della notte, della morte e, perché no?, del biossido di carbonio...

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