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Cos'è l'infelicità.

L’infelicità è una contrazione. La fisionomia umana, il “ritratto” dell’uomo si contrae in una smorfia sfigurante, che segue “figurativamente” qualcosa di analogo che gli si arrotola nelle viscere, o, per i più “nobili”, nel petto. La vittima si agita in una poltrona, o sdraiato su un letto, o magari al buio, su un balcone, una notte senza luna… ma non trova misericordia. Niente oppone al senso di soffocamento che avverte una qualche barriera per salvarlo. Lo spazio-tempo gli soccombe in gola, lo spazio è revocato, disdetto. Resta solo il tempo, un tempo invivibile e in-vissuto, cui non si sa come porre riparo. E’ allora che la vittima pensa al suicidio. Ma avverte pure una sorta di contraddizione. Il suicidio, logicamente, non è, non può essere la conseguenza del vuoto che ne è la causa. Lui non vuole suicidarsi, non vuole niente. Suicidarsi è un atto, ed è proprio l’attualità il terreno che gli manca. Ossia, suicidarsi sarebbe la stessa cosa che gli sta già accadendo, solo in una modalità diversa. Ma non sarebbe la differenza da quella infelicità da cui si cerca scampo, anzi, ne diverrebbe l’emblema. L’infelicità diverrebbe infinita.
Lui vorrebbe non esser vivo, qui e ora. Non vorrebbe alcun atto, neanche quello di morire. Morire sarebbe, per così dire, troppo. Non vorrebbe, non può vivere, ma neanche morire- perché sarebbe la stessa cosa, non il contrario.
Ma “togliersi dalla vita” a noi non è dato. Ci è dato soltanto il morire, nessuna quiete, nessuna possibilità di scantonarsi dal rumore dell’essere per entrare in una pace lussureggiante, ove non sia né il bisogno di cercare il riposo, né un “eterno riposo” che abolisca ogni cosa.
Ci resta soltanto un tempo infelice per desiderare né di vivere, né di morire, e restarci dentro inerti e catatonici come il sogno tragico di una marionetta.

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