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Farah

Farah mi guardava in silenzio, i suoi profondi occhi scuri raccontavano più delle sue parole:  nella pausa stringeva  le mani l'un l'altra , cercava di  riprendere il fiato per trovare la forza di esporre ancora quello che per anni aveva tenuto nascosto. I fogli davanti a me erano  colmi di orrori, lo stomaco mi si torceva al pensiero di quanto aveva subito . Aveva una figura minuta, un aspetto così fragile che alimentava l'istinto di abbracciarla stretta, eppure per anni chi le viveva accanto le aveva elargito solo violenza. Prigioniera di un amore malato, trasformata in oggetto e capro espiatorio. L'aveva scritta con minuziosità, la sua storia, con un inchiostro rosso sangue, ci aveva impiegato tutta la notte prima del nostro incontro, me l'aveva poi ripetuta a voce, con lunghe pause, non staccando mai gli occhi dai miei quasi nutrisse il timore che io non cogliessi in pieno il suo racconto. Ma la comprendevo più di quanto lei potesse immaginare : io non avevo segni esteriori come le sue cicatrici sul volto, i miei erano ben nascosti sotto il professionale tailleur nero, l'avevo anche io un amore malato che mi attendeva nel mio quotidiano. Lei il coraggio di usare la lama l'aveva trovato... e io?  - Allora, come procediamo, avvocato? -
 
Farah nel suo paese aveva imparato la danza del ventre: la ballava di nascosto, con un'amica, quando erano sole in casa, si mettevano davanti all'unico specchio e si allenavano nelle movenze. Quando venne in Italia riuscì ad alimentare la sua passione perchè trovò lavoro dapprima  come inserviente in una palestra e poi quando seppero della sua abilità istituirono un corso di danza del ventre per le annoiate casalinghe italiane.  Fu proprio in palestra che si conobbero, lui, personal trainer, rimase affascinato nel vederla danzare , lei abbagliata dai suoi intensi occhi azzurri. Iniziò come ogni altra storia, la loro : il corteggiamento, l'innamoramento, la passione, la decisione di condividere la propria quotidianeità.  Lei alcuni segnali li aveva notati, in verità : qualche sfogo di esagerata gelosia - anche solo uno sguardo ne alimentava l'avvio - e alzava le mani, lui , ma lei lo giustificava come segno del suo amore, si colpevolizzava,  lei - nella cultura del suo paese, poi, picchiare le mogli era quasi normale. Poi tutto iniziò a peggiorare, di giorno in giorno: la volle a casa ,  e lei lasciò il lavoro - i segni delle percosse cominciavano ad imbarazzarla-  poteva uscire solo con lui perché la chiudeva a chiave,  dapprima in casa e poi, per il timore che riuscisse a comunicare con qualcuno mentre lui non c'era , nel bagno cieco. Iniziò a picchiarla con metodo, senza motivi apparenti, si specializzò in ogni tipo di violenza. Fino al giorno in cui lei raggiunse il limite di sopportazione. Lo accoltellò nel sonno, al buio, temendo  che lui svegliandosi potesse fermarle la mano, uscì dalla stanza e chiamò perchè la venissero a prendere : nessuna prigione poteva spaventarla più di quella che aveva sperimentato.
 
-Farah ?- sussurrò piano. Nessuna mano strinse la sua. Aprì gli occhi lentamente : non riconosceva l'ambiente, gli sembrava di essersi svegliato da un'incubo per ritrovarsi in un altro incubo. L'immagine passata gli era ancora chiara nella mente : arrancava trascinandosi a fatica in un tunnel, una forza lo risucchiava indietro, gli mancava il respiro, quasi avesse la bocca piena di un liquido denso di cui percepiva persino il sapore , salato e disgustoso. Ed ora, risalita la china di quel tunnel, si ritrovava, sveglio, steso in un letto non suo, sentiva il lenzuolo pesare sulla sua pelle nuda, le luci soffuse, l'odore :  riconobbe con angoscia di essere in un ospedale: ma come ? Perché ? 
 
Era notte, nel reparto, c'era il chiacchericcio sussurrato degli infermieri di guardia, qualche cicalino di chiamata , ogni tanto, i passi lungo il corridorio. Avevo indossato un camice bianco cambiandomi nel bagno dell'atrio, nessuno mi aveva fermato, nemmeno notato. Avevo fatto attenzione alle telecamere della vigilanza girando la testa al lato opposto quando entravo nel campo visivo, in ascensore era entrata una coppia silenziosa di altri infermieri. Nessun scambio di sguardi, nel turno di notte tutto sembra ovattato. Al piano percorsi con sicurezza il corridorio e raggiunsi la stanza . C'era penombra, mi avvicinai al letto - Farah?- sobbalzai, non sapevo si fosse già risvegliato dopo l'operazione. Mi chinai verso di lui - No, sono una sua amica.- Presi il cuscino del letto vicino  posandoglielo poi sul viso, iniziò ad agitare gambe e braccia, ma era debole per il sangue perduto, non durò molto. Stropicciai con cura il cuscino e lo rimisi a posto, mi avviciani per ascoltare un respiro che più non c'era.    Ritornai sui miei passi, nel bagno dell'atrio mi tolsi il camice che copriva il mio professionale tailleur nero.  Sorrisi - Ho finito il tuo lavoro,  Farah, ed ora inizierò il mio.-
 

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