Scritto da © john venarte - Sab, 30/04/2011 - 10:26
Varcai la soglia dell’oblio. Poi mi scelsi un nome. Già. Proprio così. Come si fa per gli eroi dei romanzi. Lo generai fondendo gli opposti: donna e uomo, amore e guerra, venere e marte. Il mio nome era Venarte. John Venarte.
Stivali color ruggine nella pioggia d’argento. Passo deciso e sonante. Cuore in continuo tumulto e occhi imprigionati dall’orizzonte. “Così cammina per le vie del mondo chi veramente del mondo è signore”. Un poeta. Il Poeta.
Per i salotti letterari e le riviste specializzate ero “il poeta definitivo”. Modesto appellativo coniato genialmente da me e in seguito dato in pasto ai critici che l’hanno fatto risuonare, come un potente eco, nella grotta semibuia della letteratura contemporanea. Un faro illuminante insomma. L’anno zero che prelude ad una nuova era.
Non ho mai capito cosa ci trovassero in me. Nei tanti incontri con il pubblico mi dichiaravo, senza vergogna, un incompetente. Subito chiarivo di non sapere niente di poesia. Cosa fosse un ossimoro o una sinestesia lo ignoravo spavaldamente. Però, a detta di molti, sapevo usare, sapientemente, ogni figura retorica.
Il mio editore mi organizzava tour promozionali nelle librerie più in vista di tutta Italia. Io ci andavo con aria seccata e annoiata, sbadigliando davanti al poster che recitava il titolo della mia opera: Cosa c’è di più dolce di un bacio a fior di labbra?. Poi mi sedevo scomposto e ascoltavo il panegirico di lodi e aggettivi del presentatore.
Dopo la lettura della tanto celebre e celebrata Eclissi di cuore, ecco che toccava a me disquisire (controvoglia) di ciò che mi ha spinto a scrivere, quali sono state le mie ispirazioni, eccetera. Era proprio questo il momento che preferivo. Era qui che scattava la trovata più furbesca che nessuno prima di me aveva mai attuato per promuovere un libro. L’hanno definita la contro-pubblicità. Prendevo il microfono e dicevo pressappoco così:
- La poesia è oramai defunta. Io stesso leggo solo poeti morti. Oggi tutti si credono poeti e quindi nessuno lo è più. Io sono ciò che è più lontano dalla poesia stessa. Sono l’antitesi della figura del poeta. Non credo che quando morirò mi verrà incontro Dante dicendo “collega! Chi non vive si rivede!”. No. Assolutamente no. Lasciate perdere me e le cianfrusaglie che scrivo. Andate allo scaffale dedicato alla poesia e svaligiatelo! Rubate D’Annunzio che, con arroganza, vi sbatte in faccia la sua superba tecnica. Inchinatevi leggendo “La pioggia nel pineto”. Pregate con un rosario e con “L’affabulazione” tra le mani. Ascoltate l’elegia casalinga di Saba. Guardate Dio che si specchia nel vostro riflesso nell’ultimo del Paradiso. L’appetito vien mangiando. Non saziatevi mai. Innalzate un altare per la nostra bella lingua. Accendetele ceri e candele per le sue infinite sfumature. Per i suoi suoni liturgici. Io ho iniziato a scrivere subito dopo la morte di Alda la pazza. È stata lei per me l’ultima poetessa. La morte l’ha consacrata agli altari cinti d’alloro. Fatevi, poi, un giro alcolico nei campi avvelenati dove crescono i fiori del male! Godete bagnandovi nei flussi di coscienza di Prufrock! Alitate sulle ali del corvo di Poe! Vi ritroverete, come me, a galleggiare tra bolle di parole e arcobaleni di mille e più colori. Salite in vetta alle visioni di Blake! Infine vi do un consiglio: lasciatemi perdere!-
Così terminavo sempre i miei comizi. Seguiva un silenzio tombale. Poi un primo e timido battito di mani. Infine tripudio. Lo scroscio si faceva cascata e tutti si accorgevano di aver partecipato a qualcosa di irripetibile. Con questo non voglio prendermi alcun merito ma date a Cesare quel ch’è di Cesare... Io non pretendevo di essere nessuno. Ero soltanto un veicolo verso il bello e il sublime. Niente di più.
È stata la visione cellulare del cosmo che, indubbiamente, mi ha portato alla ribalta. In pratica sostenevo che il sistema solare fosse nient’altro che un’enorme cellula. Il sole la sua centrale elettrica, simile a un mitocondrio. E che l’orbita di plutone descrivesse la membrana di questa sconfinata matrice vivente. La terra,invece, era il nucleo dove gli uomini, per mitosi o meiosi che sia, si moltiplicavano e si rinnovavano continuamente. Tutto questo andava poi a formare tessuti, organi e apparati di un corpo immenso e divino, perfetto e meraviglioso.
“Attento, sei destinato a cadere!”
Cantava così il menestrello di Duluth più di 40 anni fa. Ma adesso più che mai mi ritorna alla mente questo verso. Lo ripeto in continuazione come un bimbo che ripete tra sé e sé di non aver paura del buio. E, come un presagio profetico, sento crollarmi il terreno sotto i piedi. Mi trascino a spalle curve per la strada, proprio come il Novecento che, genuflesso su se stesso per espiare le sue colpe, striscia per inerzia nel nuovo millennio, tra i miti della razza e le autobombe.
È difficile, anche per chi del successo non gliene importa niente, ritrovarsi all’improvviso su un palco senza più luci. Più si sta in alto più la velocità con cui si cade diventa maggiore. È una legge fisica. Ed io mi son ritrovato senza più parole. Senza più ispirazione. Come un delfino spiaggiato. Un tempo giocoliere tra le onde. Principe indiscusso del mare. E poi quasi un relitto. Una carcassa morente privata del suo elemento vitale. Senza un porto da cui salpare. Senza più il canto delle sirene d’ascoltare. Un delfino spiaggiato.
Ah! Se solo avessi visto il mare che ho visto io… Capiresti il disagio di un asceta che, dopo aver contemplato il nirvana, si ritrova in questo mondo bidimensionale. Vivresti la crescente delusione di un astronauta che ha sognato la luna e poi si accorge di avere, tra le mani, solo polvere di gesso. Così non riusciresti a reggere nemmeno il sorriso di un bambino. Né, semplicemente, il tuo riflesso. “Sapresti distinguere un campo verde da una fredda rotaia d’acciaio?”
Sono passati non so quanti giorni…o anni…o forse solo minuti. Il tempo sta diventando un concetto fallace. Si dilata e si restringe al ritmo dei miei pensieri. Infinitamente grandi per essere abbracciati per intero o immensamente piccoli per poterli solo concepire. So soltanto che le pareti di questa stanza si restringono sempre più. Mi vanno strette come un maglione di lana dopo un ciclo di lavaggio.
Ho abbassato le tapparelle. La luce non filtra più. Il buio non penetra più. Tiro avanti con una lampadina tascabile che si ricarica scuotendola.
La porta dietro me è chiusa. Spesso ci sbatto i pugni, evocando salvezza.
Sulla scrivania, tra il disordine accumulato, accanto a questo diario che sto tenendo, c’è un bicchiere con due dita di un liquido inodore e incolore. Ho paura che ci siano diluite dieci gocce di non so cosa. Forse un rimedio per questa nenia di pensieri e deliri. Forse una pozione “per entrare nel paese delle meraviglie e vedere quant’è profonda la tana del bianconiglio”.
La barba incolta mi dà prurito. Vorrei scorticarmi la pelle.
Non riesco a dormire. A volte, da un batter di ciglia all’altro, passo dalla sedia al freddo pavimento, senza ricordare di essermi minimamente mosso. Mi giro e mi rivolto. Dal letto senza più lenzuola mi ritrovo a strappare le pagine dei romanzi che mi hanno formato e cresciuto.
La campana dell’intro di “Mother” di John Lennon scandisce quattro rintocchi a cui corrispondono quattro mie decisive azioni. Non riesco a ricordarle cronologicamente. Le riporto qui di seguito. Provate voi a riordinarle e a coglierne il senso:
-prendo il bicchiere. lo giro nella mano sinistra. con un improvviso scatto muovo la testa fino a fissare un punto esatto nel vuoto davanti a me. così recito meccanicamente: “lloyd, sei il migliore tra tutti i dannati barman del mondo da timbuctù a portland maine o portland oregon se preferisci”…alzo in alto il bicchiere come per fare un brindisi. tutto d’un fiato ne tracanno il contenuto. poi raccolgo con la lingua le gocce rimaste sul labbro inferiore. infine rido maleficamente.
-riapro gli occhi. sono per terra in una posizione contorta. anche la sedia giace ribaltata insieme a me. mi aggrappo alla scrivania. mi sollevo. il bicchiere è sempre lì. mi giro verso la porta. è aperta. mi avvicino alla sua soglia. al di là c’è il buio. l’oblio. osservo la mia stanza. faccio un inchino. poi corro fuori.
-leggo:pervaso di te, mi fingo me stesso e attraverso i manieri degli Dei sopra noi. c’è da nutrirsi nel fossato. da cibarsi del tuo cuore. ma solo suoni(o schiavi?)noi siamo, di un nastro celeste non ancora inciso. come sciacalli in ferite aperte, questi innesti di vita ci consumano, dandoci nuova linfa. così rinasciamo come unica essenza in un frutto nuovo. trasmutati e liberi libriamo. ci amiamo.
-una mano mi accarezza i capelli. sogno che sia la tua. nei miei ricordi sei rimasta un miraggio. sei l’ultima scheggia di realtà che ancora mi porto dentro. mi frantumi l’anima. i miei occhi restano chiusi. poi un rumore dietro me…
Quando parte il cantato, sono già fuori. In un mondo mai visto prima. Non colgo la poesia. Non riesco a riconoscere, nelle sagome che mi sfiorano, esseri umani. Tutto è disumanizzato. Solo il vento mi consola. E mi pettina i capelli.
Cerco te che sfuggi di viso in viso. Passi come un piatto bollente di mano in mano. E io t’inseguo. O chimerica visione. O raggio lunare. O sognato aquilone.
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