Chi ha ucciso Calimero? - cap.I° | Prosa e racconti | Franco Pucci | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Chi ha ucciso Calimero? - cap.I°

L’aria nella stanza si era fatta pesante. L’imbarazzo e la consapevolezza di averla combinata grossa avevano creato una coltre così spessa che potevi tagliarla a fette. L’Art Director e il Copywriter si erano dati alla latitanza occultandosi nello sgabuzzino che ospitava la macchina distributrice di atroci merendine e pessimo caffè. Gli assistenti girellavano tra i tavoli fingendo impegni improvvisi ed improcrastinabili, uno si era addirittura affettato un’unghia con il bisturi mentre stava tagliando carte colorate. Era trasalito alla domanda che il Direttore Creativo aveva posto: Chi ha ucciso Calimero? Ma facciamo un passo indietro, anzi due. Si era agli inizi degli anni sessanta e la pubblicità, come forma di comunicazione, votata soprattutto allo sviluppo della vendita di prodotti, stava mano a mano prendendo piede e, attraverso la televisione, scatola infernale che prometteva mirabolanti panacee universali, stava conquistando un posto importantissimo nella vita di tutti i giorni. Logico pensare che a seguito di tutto ciò sarebbero nate nuove professioni e nuove figure professionali: I pubblicitari. Altrettanta logica e naturale era stata la nascita di Agenzie Pubblicitarie, perlopiù emanazioni di agenzie internazionali, americane soprattutto, che avevano conquistato il cuore della city per elezione: Milano. Erano spuntate come funghi e i duelli all’arma bianca per conquistarsi i clienti con i relativi opulenti budgets erano all’ordine del giorno. Milano nel frattempo stava cambiando pelle, i vecchi quartieri cari a tanta letteratura oleografica dei primi del novecento, piano piano stavano scomparendo per lasciare posto a nuovi insediamenti, perlopiù banche ed agenzie di pubblicità. La televisione nel frattempo aveva conquistato uno spazio sempre più importante nella vita quotidiana e la nascita di un “programmino” tutto dedicato alla pubblicità aveva conquistato dignità e “audience” attraverso la proposizione di filmati che, seppur brevi, raccontavano la pubblicità in forme di spettacolo a volte molto gradevole. Era nato “Carosello”! Tutto cominciò da lì...
 
James si alzò di malavoglia, aveva ancora sonno nonostante avesse dormito otto ore filate dopo la colossale sbronza di pessimo whisky mischiato ad un altrettanto fetido rhum tracannati al Jamaica, storico locale per artisti che trovavi aperto ad accoglierti sino a tardi in via Brera, a due passi dal centro di Milano. Aveva la testa pesante, un alito a dir poco omicida e, nell’attesa di un qualsiasi segno di vita da parte della caffettiera che soffriva sul fuoco, si accese la prima di un’interminabile sequela di sigarette che avrebbe accompagnato la sua giornata avvolgendola costantemente di una nuvoletta di fumo. Marlboro, of course. Stiracchiandosi si avvicinò alla finestra che dava sulla darsena. I barconi carichi di improbabili e misteriose merci erano lì, pronti a risalire il Naviglio per arrivare sino al Ticino, a Pavia. Aprì la finestra e mentre osservava distrattamente questo storico angolo della vecchia Milano, il suo pensiero veleggiò verso la città natia: San Francisco. 
Sì perché James era americano, uno dei tanti creativi pubblicitari che il provincialismo dei clienti italiani e la spocchia delle agenzie americane avevano reclutato negli States, patria della pubblicità, o meglio dell’“advertising” come dicevano loro. Alto, sui trent’anni mascella volitiva e quadrata, tratto somatico che denotava indubbie origini americane, era però di un colorito perennemente tra il grigio e l’olivastro decisamente malsano retaggio di una vita notturna piena, non solo di alcool. Marlboro perennemente accesa all’angolo della bocca, capello vagamente lungo a ricordo di trascorsi beat, sorrideva poco, solo il necessario. 
Jeans rigorosamente Levi’s Original e camicia che aveva visto giorni migliori nelle lavanderie automatiche del suo quartiere natio a San Francisco, completavano il look volutamente fané, da intellettuale maledetto, alla Bukowski. La caffettiera nel frattempo aveva perso la voce nei continui e inutili richiami e il caffè era diventato decisamente imbevibile. James decise allora che avrebbe fatto colazione al bar dell’angolo, in Piazza Affari, proprio sotto la sede dell’Agenzia Pubblicitaria per cui lavorava e da cui era stato assunto con la mansione di Direttore Creativo, profumatamente pagato e con una serie interminabile di bonus che arricchivano il suo contratto. Ivi compreso l’alloggio, uno splendido, piccolo loft a Porta Ticinese, prospiciente la darsena. 
Prese al volo il tram, (impossibile parcheggiare qualsiasi mezzo di locomozione che non sia una bicicletta in Piazza Affari a Milano), e in un amen scese a Piazza Cordusio…”near my job” come soleva dire quando descriveva la sua vita da “emigrante di lusso” ai suoi compatrioti. Entrò immediatamente nel Bar “Affari tuoi” prospiciente l’ingresso dell’Agenzia e ordinò con fare annoiato: <<Un cappuccio, please.>> 
Mario il barman aveva imparato a conoscerlo ormai e affettava con lui una confidenza altrimenti negata ad altri clienti <<Giornataccia, eh, James?>> disse scrutando il viso dell’interlocutore che navigava tra l’annoiato e l’addormentato, per poi virare decisamente sull’incazzato. <<Oh, yes! - rispose James -mi aspettano in agenzia per una serie di maledettissimi e strarompicoglioni di brainstorming non li sopporto proprio, è una tale rottura>> così dicendo portò la tazzina alle labbra e blaterò una frase irripetibile che a Mario sembrò significare un’impronunciabile bestemmia. <<My God! Ma è bollente! Quante volte ti ho detto che lo voglio tiepido il cappuccino>> ciò detto addentò la brioche riscaldata che Mario gli aveva propinato (tanto è americano) e, senza profferire altro, prese l’uscio e si precipitò in strada. <<Segno. eh, James….>> 
Mario aprì il libricino e allungò la lista del conto che James aveva in sospeso e che regolarizzava ogni fine mese. James nel frattempo con quattro falcate rapide era arrivato a destinazione. 
Una rampa di scalini di marmo portavano ad un ingresso ampio con volte molto alte, caratteristiche dei palazzi fine secolo che davano sulla piazza. Una targa in ottone che brillava per i raggi del sole, recitava in modo discreto e volutamente minimale: “Smith & Wesson – Advertising & Sales Promotion”. Il piano non era indicato, poiché l’Agenzia occupava tutti e cinque i piani del palazzo. L’ingresso, arredato in stile ultramoderno cozzava alquanto con l’immagine che il palazzo dava di se a chi vi si approcciava dall’esterno. 
Divani di pelle rossa sparsi con noncuranza ed apparente disordine, ammennicoli vari sicuramente di alto design, ma che dell’inutilità intrinseca facevano bella mostra, quadri futuristi alle pareti, talmente futuristi che impegnavano le persone in attesa ponendo loro il cruciale dilemma: “Sono io che non capisco un cazzo o sono davanti ad un opera storica?” Normalmente propendevano per la prima soluzione, intimoriti dall’ambiente socio-cultural-avanzato, ma i più disincantati concludevano sedendosi con un ghigno “E’ una merda, una vera crosta!” 
Maggie, la “centralinista-reception-tuttofare-portaicaffèinsalariunioni” lo accolse con un sorriso speranzoso <<Hi, James, how’re you?>> <<Bene…>> bofonchiò il nostro e si diresse velocemente verso l’ascensore. Non voleva dare assolutamente corda a Maggie, per non creare attriti e invidie presso le donne dell’Agenzia. Sì perché James era considerato un ottimo partito, buono per ogni uso, matrimonio, convivenza, una botta e via, qui sulle scale, sopra la macchina delle fotocopie…insomma: ovunque e comunque! Poi. con quel che guadagnava, vuoi mettere..
Ma quella non era una mattinata felice per James, avrebbe dovuto capirlo dai molteplici segnali ed avvertimenti che il mattino gli aveva lanciato…il cappuccio bollente, le sigarette che avevano un deciso aroma che ricordava lo stallatico delle farms texane, insomma tutti i prodromi di una vera e propria, gigantesca giornata di merda! 
Deglutì quando le porte dell’ascensore si aprirono e si trovò di fronte Mr. Wesson, ceo dell’Agenzia e Dio in terra per tutti i dipendenti. Mr. Wesson era un ometto insignificante che dimostrava molto di più dei suoi 55 anni. Di corporatura decisamente robusta, normalmente indossava abiti di una taglia superiore, per via di una pancia prominente che ne minava la stabilità. Regolarmente abiti color grigio indefinito, da travet parastatale che a malapena coprivano camicie impresentabili, stazzonate come normalmente succede ai single americani, dato che il ferro da stiro è un elettrodomestico pressoché sconosciuto da quelle parti.  Cravatte..e qui si potrebbe aprire un capitolo a parte per quanto attiene la “range” di questo accessorio. Colori e decorazioni incredibili lasciavano spesso il posto a cravatte grigio topo o fumo di Londra, regolarmente annodate con un nodo piccolissimo al colletto non certo inamidato della camicia, penzolavano con tutta la loro lunghezza e venivano regolarmente infilate nella cintura...oddio nei pantaloni, perché spesso erano le bretelle a sorreggerli.  Viso glabro da maialino da  latte, appena rasato, (una pro-forma, tanto peli non ve n’erano) ed un olezzo di dopo barba di cui il nome è ancora adesso disputa di scommesse gigantesche nel mondo pubblicitario. <<Hi, James – apostrofò – l’attendo nel mio ufficio!>> James deglutì nuovamente e, sfoderando uno dei suoi proverbiali sorrisi per cui tutte le segretarie dell’Agenzia avrebbero sfilato in tanga, rispose <<Of course, Mr. Wesson, naturally.>> 
Ciò detto si infilò nell’ascensore dribblando la pancia del capo e, tirando un sospiro di sollievo, schiacciò il bottone con la targhetta che indicava “Reparto Creativo” 5° Piano. Arrivato, si fermò un attimo prima di varcare la porta a vetri, cercando di assumere l’espressione e quell’aria volutamente svagata, tra l’annoiato e il ”giàvisto-checazzovuoledirequesto-faialmenotrevarianti-Cristomanoncapiteuncazzo!” si accese la proverbiale Marlboro ed entrò. 
 
E quello fu il suo primo errore. 
 
 

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