Scritto da © Carlo Gabbi - Ven, 15/01/2016 - 13:17
Parte due
Il sergente Pirona , con il suo gruppo di genieri era di servizio, controllava il nuovo tracciato desertico che avrebbe condotto al campo avanzato, in una delle dune nella vicinanza di Tobruk, fosse adeguatamente viabile e sicuro. Angelo precedeva con la sua Guzzi, mentre il plotone, per sicurezza lo seguiva a una certa distanza, su un autocarro Ro. A lavori completati, Angelo ordinò al gruppo di rientrare alla base, mentre egli li avrebbe seguiti più tardi, dopo una finale ispezione. Aveva a tracolla la borraccia che era ripiena di cognac, parte del bottino che la fortuna volle pescasse nella baia di Tobruk, il giorno che Italo Balbo morì.
Pensò a un breve riposo prima di fare gli ultimi accertamenti, e si stese sotto una palma dell’oasi, e trangugiò liberamente un paio di sorsi di liquore.
La frescura del luogo e il cognac congiurarono e si addormentò profondamente, perdendo cognizione del tempo.
Fu risvegliato bruscamente mentre qualcuno lo scrollava sulle spalle, e una voce perentoria ordinava : “Don‘t make any resistence, You are surronded and a war prisoner!”(Non tentare di resistere sei ora un prigioniero di guerra)
Pirona incredulo, si stropicciò gli occhi e guardò quell’ufficiale biondo in una sconosciuta uniforme caki, “Non fare scherzi, e cosa fate qui? Questa oasi è nostra!”
“Non comprendo, me no parlare Italian, You now… a war prisoner. We are Australian soldiers on patrol.” (Siamo Australiani in ricognizione… Tu nostro prigioniero.”
“Bene officer, so today is my happy day! Celebriamo allora.” Nel dire ciò, sturò la sua borraccia e invitò il biondo ufficiale a bere,
“Alla nostra buona fortuna, Officer.”
Due mesi più tardi Angelo Pirona si trovava in Cowra, Australia, in campo di concentramento. Alcuni mesi più tardi gli venne offerto di uscire dal campo purché lavorasse come contadino in un podere vicino.
Angelo accettò volentieri. Aveva ricordi del podere del padre in Friuli e come da giovane aiutasse il padre nei lavori campestri. Angelo sapeva che lavorando avrebbe avuto più indipendenza e tranquillità d’animo sino a che la guerra fosse finita.
Angelo fu assegnato alla farm di Mr. McKenzy, un vecchio contadino locale che aveva una vasta campagna ed era senza alcun aiuto, dopo che l’unico figlio, all’entrata in guerra con il Giappone, era stato dislocato a combattente in Singapore.
A casa, assieme al vecchio padre, vivevano le due giovani figlie che accudivano alle faccende domestiche.
In breve tempo Mr. McKenzy, riconoscendo la capacità lavorativa di Angelo, lo aveva preso in simpatia, e gli aveva dato più autonomia nelle coltivazioni agricole. Inoltre il McKenzie aveva ottenuto per lui, dalle autorità locali un passa condotto che permetteva ad Angelo di recarsi in paese da solo per i necessari approvvigionamenti della “Farm” e così pure era libero di partecipare alla funzione domenicale nella chiesa locale, Gli obblighi di Angelo, era una limitata libertà ed era suo dovere presentarsi alla stazione di polizia settimanalmente. Gli era pure proibito di frequentare luoghi pubblici dove fossero venduti liquori.
Passarono in quel modo buona parte di tre anni, e Angelo era rispettato e benvoluto in quel piccolo centro rurale. A lui piaceva la vita campestre e fu come un ritorno alla sua vita giovanile, al tempo in cui lavorava assieme al padre e con il passare del tempo si affezionò al vecchio McKenzy che lo trattava come un secondo padre.
Inoltre ad Angelo piacque sin dall’arrivo quel luogo nuovo, con quell’immensa vastità territoriale e il clima perennemente mite che gli ricordava un po’ l’Africa, dove aveva vissuto la sua giovinezza per oltre vent’anni.
Fu quindi cosa naturale per Angelo, quando le ostilità belliche finirono e dopo aver ricevuto notizie dal padre di quanto fosse difficile la vita in Italia, di optare di rimanere a vivere in Australia anziché essere rimpatriato.
Il vecchio McKenzy fu più che mai felice di garantirgli un lavoro, sebbene allora il figlio fosse ritornato dal suo internamento come prigioniero Nipponico, e costretto durante la prigionia a lavorare nella costruzione di un ponte in una sperduta isola del Pacifico.
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I villaggi Alpini della Carnia sono racchiusi in sette strette valli create dai corsi d’acqua tributari del Tagliamento e del But. Quest’ultimo nasce al confine con la Corinzia e scende nel profondamente letto scavato tra le rocce del Passo Monte Croce. Questo è sempre stato il confine naturale tra l’Italia e quella nota provincia Austriaca.
E` su questo versante Carnico che la storia ci riporta indietro nel tempo, sino all’epoca della prima civilizzazione Romana del luogo che risale al tempo di Giulio Cesare; Ancor oggi, lungo quella valle, affiorano i resti Romani di quel tempo, maggiormente evidenti sono le tracce lasciate del loro passaggio, nella città di Zuglio che venne eretta allora, base necessaria a portare a termine i loro grandi lavori d’ingegneria, nella costruzione di quell’importante nodo stradale che li agevolò nell’opera di civilizzazione di quella parte di territorio germanico, per poi estendere il loro dominio su quella terra, portando al di là di quella naturale barriera granitica dolomitica la loro civiltà che pur sempre rimase il naturale confine tra quelle regioni.
In questo territorio montano la vita non è mai stata facile. La grama coltivazione è rubata con arduo lavoro di secoli rubando piccole coltivazioni dalle pendici scoscese delle valli, più ricche di pietrame che di suolo fertile. Inoltre, alcuni di quei villaggi montani sono locati troppo alti e la pressione atmosferica diminuisce la capacità produttiva di quei pochi vegetali necessari al loro sostentamento.
Nei secoli passati questi villaggi alpini, scavati a ridosso delle pendici dolomitiche, hanno servito come validi bastioni difensivi contro le invasioni di popoli barbarici, provenienti dal nord, e così pure furono soggette all’invasione maomettana nel periodo medioevale. Ne è rimasto testimone di quest’ultima opera difensiva, il Bastione La Piccotta, che si trova saldamente ancorato sulle pendici del Monte Strabut in Tolmezzo.
Eccomi ora giunto a ricordare le ultime fortificazioni difensive che furono costruite nella valle Carnica, per volere di Mussolini all’inizio degli anni ‘930. Questo volere fascista mi appare alquanto sarcastico, pensando che quelle fortificazioni dovevano servire a difendere il territorio nazionale da un’eventuale invasione Nazista. Quelli furono gli anni che i nazisti occuparono l’Austria incorporandola come territorio del Terzo Reich. Passarono pochi anni dall’inizio di quei lavori e si nota un completo voltafaccia Fascista, che forse avvenne ancor prima che quei fortini fossero terminati. Il governo di Mussolini si ricrede, e vede la nuova Germania come una nazione forte e la vuole simulare, sicché il Duce fece allora un bel sorriso a Hitler, e i due condottieri con grande soddisfazione scambiarono una stretta di mano debitamente reclamizzata di fronte alle fotocamere dei documentari Luce di allora, mentre i due prodi condottieri firmano un nuovo accordo, che li unisce, forse più desiderosi di guerra che di pace, dando così vita al famigerato “Patto d’Acciaio”, alleanza Italo-Tedesca, che fu il premonitore della Seconda Guerra Mondiale.
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In una di quelle valli carniche viveva la famiglia di Lucia. Il luogo si trovava alla base del Monte Amarianna, che durante i millenni a causa delle continue erosioni aveva creato un immenso letto alluvionale. Al tempo del disgelo, le acque dello scioglimento delle nevi, divenute torrenziali, hanno la forza di sospingere verso valle tutto quell’immenso rovinio di pietrame. Quella zona si presenta desolata e brulla, un luogo abbandonato dal ben volere di dio.
Questa località, con sdegno è stata chiamata dai locali con il nome di Pissebus, ossia il cesso. Era in questo luogo che nonostante mancasse un gradevole ambiente ecologico, viveva un esimio gruppo di persone, in tutto forse non più di tre famiglie, che erano indubbiamente le più povere del luogo. Scampavano con una vita grama, piena di stenti e quelle poche cose che potevano racimolare all’intorno. Il loro possedimento di più valore erano quelle poche capre, che trovavano il loro magro sostentamento dai rinsecchiti cespugli che crescevano tra la pietraia all’intorno. Nonostante quella dieta di stenti da quelle capre mungevano abbastanza latte di sapore pungente ma capace di saziare e far crescere i diversi mocciosi del luogo.
Il padre di Lucia era l’unica Guardia Forestale del luogo che sovraintendeva quel vasto distretto, mentre la madre, da lunghi anni, prestava il suo umile servizio come serva, presso una delle più facoltose famiglie in Tolmezzo, i Vedovato, che avevano visto accrescere il loro patrimonio con l’avvento fascista. Quello era null’altro che un ben ricompensato debito allo squadrista che aveva partecipato nell’ottobre del ‘928, a fianco di Mussolini alla Marcia su Roma.
Lucia era in quei giorni quattordicenne, l’unica dei figli che attendesse regolarmente alla scuola locale. Su di lei, nel suo tempo libero, cadeva la responsabilità di sorvegliare la sorella minore e l’andamento della casa durante l’assenza materna.
Il padre, era in paese, stimato come un bonaccione, e una brava persona. Purtroppo se solo beveva un bicchiere di troppo, il suo carattere cambiava completamente. Questo era quanto gli succedeva spesso durante gli ultimi anni. Il giorno in cui riceveva la paga, era sua abitudine di andare a bere con amici e rientrava a casa quando ormai era notte. Si recava nell’osteria di Piazza Santa Caterina, dove discuteva ad alta voce con gli altri avventori di sport e di politica tra molti bicchieri di vino, mentre dicevano a alta voce le loro considerazioni politiche, in bene o male, delle capacità del nuovo Partito Fascista.
Pietro rimaneva in quel locale sino all’ora di chiusura, e alla conclusione della serata aveva sperperato buona parte della sua paga mensile, gruzzolo che poi sarebbe mancato nelle compere delle molte cose necessarie per il vivere famigliare.
Al suo ritorno a casa, dopo quelle notti spese a bere, Pietro si poteva considerare fortunato di non essere travolto da una delle macchine, anche se il traffico notturno fosse limitato. Nella sua ubriacatura camminava malfermo sulle gambe e ondeggiava da lato a lato della strada, mentre continuava a discutere ad alta voce tra se e se, quella discussione interrotta troppo presto all’osteria.
L’arrivo a casa era più mai difficile, negli ultimi cento metri di ripida salita arrancava con fatica. Cadeva ripetutamente imprecando, sin tanto che Maria arrivasse per sorreggerlo in quell’ultima fatica. Mai però Pietro riconobbe quel necessario aiuto. Anzi l’ubriacatura, gli donava un malefico potere, che lo trasformava dal suo normale benevolo carattere di ogni giorno, che diveniva in fronte della famiglia, più che mai rude e lunatico. Secondo lui le cose non andavano mai nel modo dovuto e in quei momenti, poveraccio colui, che la malasorte lo ponesse in fronte a lui. Imprecava per qualsiasi cosa e incolpava il più diretto responsabile con parole che uscivano distorte dalla sua bocca;
“Maria, la minestra non sa di niente, ed è fredda…, ma quando mai imparerai?” “Soi o no soi il to` paron? Servimi bene allora, o te la farò pagare per bene…”
E con quel dire le lanciava un man rovescio sulla faccia, mentre la povera donna aveva ormai incominciato a piagnucolare.
In quei momenti ossessivi, la sua vista veniva ancor più annebbiata dalla rabbia. Disgraziato chi ardisse di attraversare il suo cammino. Sarebbe stato punito severamente con buone vergate con la cinghia dei suoi pantaloni.
Le lamentele di Pietro crescevano col passare del tempo, infuriava per la scarsa pulizia, oppure perché aveva trovato la sua sedia a dondolo mossa dal suo luogo preferito. Un’altra ragione di furia era nel vedere la lampada a petrolio, che al suo dire aveva perennemente il vetro annerito dalla fiamma, mentre lo stoppino non bruciava nel modo dovuto.
Sedutosi a tavola, si scatenava in bestemmie e urla bestiali, come il suo sguardo cadeva sulla bottiglia mezza piena deposta sulla tavola.
“Sto vino sa di aceto, porca miseria! Mi volete avvelenare… I soldi che dò sono buoni, quindi da domani voglio solo buon vino, capito Maria…” e giù, volò un pugno versa la povera donna, che ora era rotta dal pianto.
Quelli erano alcuni dei motivi delle continue risse con la povera Maria, ma ne trovava sempre di nuove col mutar del tempo, cosa necessaria per lui, pur di mantenere acceso nella povera donna quel remoto terrore e vederla succube delle sue furie. Maria a giorni era esasperata da quei mille tormenti e in cuor suo avrebbe preferito morire.
Al mattino successivo erano evidenti i risultati della continua altercazione avvenuta durante la notte. Il corpo di Maria era ripieno di lividi dopo che il marito si era accanito in modo bestiale; mentre la notte aveva rimbombato con gli accresciuti rumori della rissa, provenienti dal giaciglio coniugale, che avevano vagato da stanza a stanza atterrendo tutti, nell’udire le parolacce di Pietro verso la povera donna, mentre rifiutava le sue maniache richieste sessuali.
Pietro, l’aveva possedeva con la forza bruta, e nella notte erano riecheggiati gli urli e pianti isterici di Maria, che erano alla pari assordanti al metallico cigolio del letto matrimoniale, rumori che si erano propagati attraverso la casa.
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Nei giorni seguenti, Pietro si trovava con le tasche completamente vuote di ogni spicciolo, e costretto a star lontano dall’osteria. In quel modo nella casa era ritornava la calma e nessuno osava dire una sola parola di quella notte di tumulto. Maria in quel modo, aveva la possibilità di riprendersi dalle paure passate. Tutti erano ritornati alle faccende usuali.
Pietro era ora calmo e silenzioso, anche se temporaneamente, era ritornato l’affabile padre di famiglia. Lentamente si dondolava sulla sua amata sedia. La pipa pendeva dal suo labbro, mentre a tempi regolari spargeva all’intorno, nuvolette bluastre di un fumo acre di buon mercato.
Moglie e figli facevano le loro cose abituali, e lui indisturbato, se ne stava trasportato dai suoi pensieri.
In quella lontana solitudine, il silenzio notturno era greve e saltuariamente interrotto da un lontano abbaiare di cani. Nella larga cucina la vita famigliare procedeva regolarmente; Maria intenta a rammendare le calze, mentre i due figli maschi, se ne stavano appartati dagli altri, rintanati in un angolo della stanza, seduti sotto la finestra. Confabulavano tra loro, intenti nel forgiare una nuova fionda che, a lor dire, avrebbero usato nell’indomani mattina, andando a caccia di uccelli mattinieri. Si sentivano privilegiati e distanti dal circolo femminile, che tenevano ben lontano della loro vita maschile. Erano gli unici che erano solidali con il padre che era il loro dio e l’indiscusso padrone.
Lucia, come suo obbligo serale aveva finito di riassettare la casa, dopo essersi assicurata che la giovane sorella fosse ben pulita e pronta per andare a dormire. Era ora tempo per lei di attendere al suo ultimo dovere famigliare. Leggere ad alta voce per intrattenere i presenti, da un libro preso in prestito dalla libreria pubblica. Quella sera, si era accomodata sotto la lampada, e leggeva unicamente per intrattenere il padre; il libro narrava della bonifica che stava avvenendo nelle paludi Pontine, volute dal nuovo Regime Fascista per dare beneficio alla popolazione del luogo. Aveva scelto quel libro dalla libreria unicamente per imbonirsi il padre, che sapeva interessato alla causa Fascista.
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