Scritto da © Carlo Gabbi - Sab, 25/04/2020 - 00:56
Parte due
Questi miei ricordi giovanili li scrivo per voi tutti, che avete sofferto nei mesi passati e penso che portandovi all’indietro a rivivere assieme quei miei giorni felici per me, possano trasmettere un po’ di gioia e farvi dimenticare la vita presente.
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E` a questo punto, ritornato a casa, nella tranquillità del mio ufficio, il mio pensiero e` corso rapidamente all’indietro portandomi sin dove la mia memoria può condurmi e rivedere i miei anni giovanili e il mio piccolo mondo antico, semplice ma capace di far rivivere giorni diversi di gioie intense, di paure e ricordi di una guerra, per poi dopo, con il tempo a venire, vedere un lento rinascere, con progressi enormi che in uno sbalzo di un trentennio, e` stato capace di portarci dall’era della pietra all’evoluzione dei viaggi spaziali e alle computers, e a quei maledetti telefonini, che drasticamente hanno ridotto la vita umana entro un pensiero robotico, facendoci perdere le nostre capacità mentali e riducendoci dipendenti ai calcolatori elettronici, e alla intelligenza fittizia del computer.
Dove si trova quindi questo mio piccolo mondo del passato?
È Tolmezzo, sperduto lassù tra le Alpi Carniche. Questo è il luogo in cui la mia memoria più remota mi porta all’indietro, forse ala giovane età di non più di quattro anni.
Ma non vi parlerò della Tolmezzo odierna, anzi, quella di oggi la odio un po’ poiché ha deprivato la mia Tolmezzo di allora, quella che esiste ancora nel profondo del mio animo, di tutti quei campi e prati, profumati dai fiori selvatici. L’urbanistica odierna ha derubato le molte cose esistenti del mio piccolo mondo per installarvi case e vilette, che se pur belle hanno tolto quelle semplici bellezze naturali.
Quei luoghi che usavo frequentare mi erano cari, poiché mi davano modo di muovermi all’intorno. Dopo tutto mi sono sempre sentito un po’ zingaro, e fu qui dove incominciai a gioire di scorrazzare libero in quel mio piccolo mondo magico.
Verrò quindi ora a presentarvi questo luogo magico come l’ho conosciuto io in quegli anni lontani del ‘930, ‘940. Allora questo luogo dei miei sogni era ancora abbastanza piccino, limitato da un lato da quella piccola ferrovia a passo ridotto, con locomotiva e vagoni tipo Western, che usava arrancare dalla stazione della Carnia sino a Villa Santina. La rivedo ancora oggi, chiudendo gli occhi, simile a quei trenini romantici e avventurosi come lo è pure il ricordo dei film antichi e muti che usavo vedere al cinema locale di allora. Al lato opposto della ferrovia, Tolmezzo era delimitato dalle sue montagne e dai due fiumi, il But e il Tagliamento, che creano le due Valli Carniche.
Quelli erano gli anni in cui nel piccolo centro cittadino, l’uno conosceva tutti, e i tutti condividevano la serenità e la pace del luogo.
Era qui dove mia nonna Gigia Tullio viveva sin da quel lontano giorno all’inizio del 20simo secolo, quando il padre Francesco, aprì un locale per vendere i vini delle sue terre in Nimis, e mise come locandiere mia nonna Gigia e la più giovane sorella Rina. Le ragazze erano giovani e belle, non ancora ventenni, i vini erano tra i migliori sul mercato tolmezzino sicché sin dal giorno d’apertura attrasse un buon numero di giovani clienti attratti sia dalla bellezza delle sorelle come dal buon Tokay, Pinot Grigio e del supremo Ramandolo che erano prodotti nelle vigne di Francesco Tullio in Nimis.
I miei lettori, che mi hanno seguito attraverso il tempo, si ricorderanno di quanto a lungo parlai nel passato della famiglia di mia nonna, i Tullio di Nimis, e dei loro lavori in Budapest. Questo mio bisnonno aveva creato, (e poi perse) per la sua famiglia un impero, fino a che un giorno venne derubato da un giovane socio che poi scappò in America con la fortuna dei Tullio. Mio bisnonno fu allora costretto a vendere molti suoi possedimenti in Nimis, e quella fu la ragione, che per ripagare parte dei debiti, le giovani sorelle vennero a Tolmezzo.
~*~
Dopo questa introduzione vi porterò con me e insieme ricostruiremo la felicità di un ragazzino, che sino allora era uso a vivere la vita rinchiusa di città e alla fine si trovò libero, assieme ad altri ragazzi, di scorrazzare nel vicinato e ben presto imparò il piacere di una vita all’aria aperta tra monti, valli, campagne, fiumi che erano anche capaci di donare frutti prelibati.
All’inizio Sergio (mio cugino) ed io si ebbe come maestro nostro zio Ferruccio, che a dir il vero, essendo solamente una decina di anni più anziano di noi era come fosse il nostro fratello maggiore.
Imparammo presto, aiutati da lui, dove trovare quelle piccole fragole montane, saporite e fragranti, che crescono sui cigli dei boschi in primavera, oppure nell’autunno trovare la nostra via tra i boschi di castani, e raccogliere i ricci spinosi con dentro le castagne, caduti a terra e semiaperti, riempire le nostre sacche, per poi portarli a casa da arrostire in padelle bucate sopra le braci del fuoco.
E ancora (al solo pensiero mi viene l’acquolina in bocca) andarsene a zigzagare in quei boschi nascosti dove porcini e altri funghi mangerecci crescono. Questi luoghi sono tenuti segreti da chi li conosce e non li svela a nessuno. I porcini sono frutti delicati, belli a vedersi, aromatici e sono pure il cibo prelibato che ogni buongustaio desidera avere sulla propria tavola. Esisteva pure un altro bosco, conosciuto da noi, che si trovava a quattro passi oltre il forte della Picotta, dove alla giusta stagione si poteva raccogliere nocciole.
Ma per noi ragazzi questi non erano gli unici luoghi in cui sbizzarrirsi e avere qualcosa in ritorno. Già, si era ragazzi e quindi monelli, e se pure mantenendo le nostre piccole ruberie limitate ci appropriavamo nella giusta stagione, di alcune pannocchie di grano oppure qualche patata, per poi, andarsene sulla riva del fiume ad arrostirle. Altre delizie per noi, sempre alla portata di mano, erano pure quei grappoli di uva americana, che predavamo nelle vigne all’intorno per addolcire le nostre bocche. Mentre in altri luoghi ci si impossessava di qualche mela, pera, per appagare il nostro desiderio di gola. Alla fine il tutto veniva poi debitamente confessato, e assolti dai nostri peccatucci, si riceveva la nostra comunione domenicale, dopo aver scontato il tutto, con un paio di Avemaria ed un Paternoster.
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Nonna Gigia a quei tempi abitava in un modesto appartamento, dopo aver perso per ben due volte, la propria abitazione a causa della guerra prima e del terremoto poi.
Fu in questo luogo che la sua famiglia era tenuta riunita e dove, come ben ricordo, amore e comprensione esistevano.
Quell’abitazione faceva parte della proprietà di Gigie Cussic, una donna astuta e molto capace negli affari che nel giro di un ventennio seppe trasformare la sua vita dalla povertà all’alto lato di benessere.
Penso valga la pena soffermare brevemente il racconto della mia infanzia per presentare più a lungo le bravure di questa donna scaltra, che non conosceva ostacoli, qualora vedeva il miraggio di un buon profitto.
Proveniva da un paesotto, arrampicato tra i monti di una valle vicino a quelle Carniche, la Val del Ferro, che immetteva direttamente entro L’Austria. In questo paese esistevano allora, sin dopo la seconda guerra, una incredibile attività, da parte dei suoi abitanti, che li vedeva partire all’inizio della buona stagione, con poche cose e attrezzi a tracolla e un carretto, forse spinto a mano, per sospingersi verso le valli vicine e paesi della bassa friulana per guadagnare un gruzzoletto di denaro che avesse dato loro la possibilità di svernare nelle loro case.
Passavano da paese a paese e per le vie cittadine, ad alte voci presentavano le loro capacità, gridando per le vie “El guzzin” ossia l’affilatore di coltelli e forbici. Per altri ancora il loro grido era “El strasser” e questi erano i compratori di cose vecchie e stracci. Ancora, forse questi i più indaffarati e migliori, erano i venditori di frutta e verdure che si soffermavano nelle piazze dei paesi per la giornata intera a vendere quel buon di dio che portavano nei loro carri, alla gente locale.
Tra questi ultimi vi era pure la Gigie Cussic, che assieme al marito, dopo aver caricato le migliori provvigioni sul loro carretto, tirato dal paziente somarello, in cerca di buoni mercati. Nei loro giri stagionali si soffermavano pure a Tolmezzo.
Il marito della Gigie era un povero uomo, intendo dire con poca immaginazione e intuizione degli affari. Faceva tutto esattamente quanto la Gigie volesse e pensasse per trasformare il tutto in un bel gruzzoletto di denaro, che lei sapeva tenere ben saldo nelle vaste tasche del suo lungo vestito nero completato da uno scialle pure nero, a coprirle la testa, come era buona usanza allora, in quei luoghi montani.
In breve tempo aprì in Tolmezzo il suo primo negozio di frutta e verdura che con la sua capacità e intuito navigò bene ritornandole un buon profitto. Il Bepi, come per abitudine, era l’uomo di fatica e colui che approvvigionava i prodotti freschi e profumati, mentre la Gigie controllava il buon andamento, della bottega aiutata da un paio di ragazzotte che serviva la clientela.
Nel giro di pochi anni investì bene i profitti, comprando buone terre da chi emigrava all’estero. Così pure intravvide buoni affari comprando una trattoria che offriva pure alloggi ai viaggiatori che si soffermavano durante la notte in paese. Questo luogo era amministrato dall’unica figlia, mentre lei, la Gigie, era ben intenta in altri affari che producevano una buona rendita.
Eccomi ora a presentarvi il punto cruciale di come veramente si arricchì, usando la scaltrezza e l’acume affaristico che quella donna possedeva e che andava al di là di quanto una donna rispettosa della morale dei tempi avrebbe fatto.
Da poco era incominciata la Prima Guerra Mondiale e Tolmezzo era divenuto luogo di smistamento delle truppe alpine verso il fronte, e i Comandi Militari che pure erano stanziati in paese, videro la necessità, di aprire sul luogo, bordelli capaci a mantenere i soldatini calmi e pronti al loro turno al fronte. Non so bene come arrivassero queste voci alla Gigie, la quale vide subito la possibilità di un rapido e buon profitto, ed offrì i propri servizi ai Comandi militari stipulando con loro un contratto a suo favore e nacquero, nel breve giro di tempo, due bordelli, uno per la truppa e il secondo per gli ufficiali.
Le fu pure facile trovare quelle ragazzotte che avrebbero servito quelle centinaia di soldati. Non appena si sparse la voce nei paesi montani, donne giovani con mariti e ragazzi al fronte, ma bisognose di denaro rimaste sole in casa e in cerca di un guadagno e forse anche del desiderio di piaceri fisici, vennero a chiedere alla Gigie di reclutarle in quel servizio.
Dopo la ritirata di Caporetto, che vide le truppe Italiane ritirarsi sulla linea del Piave, Tolmezzo venne occupata dalle truppe Austriache, ma per la Gigie gli affari andarono come al solito. Contattò i nuovi comandanti. Dopo tutto le truppe di tutto il mondo hanno le stesse necessità fisiche per mantenere in buon modo le loro capacità combattive, non fu difficile a quella donna astuta, dando via a tutti i possibili pregiudizi, di avere i suoi bordelli operanti sotto una bandiera di diversi colori. Alla fine di quella guerra la Gigie era la più ricca donna di Tolmezzo e fu allora che raggruppò i suoi averi e costruì il suo nuovo impero.
~*~
Fine Parte Due
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Inserito da Nefelia il Lun, 27/04/2020 - 19:22. #
Il mondo è Grande, siamo noi piccoli piccoli.
Se potessi, verrei ad abbracciare il suo mondo.
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