Scritto da © Carlo Gabbi - Gio, 30/04/2020 - 01:18
Ricordi di un Novantenne
Parte tre
(Ricordando il mio piccolo mondo di allora)
Mentre sto scrivendo questi miei ricordi giovanili sorprendentemente riappaiano nella mia memoria facce di persone dimenticate da decenni, cose dette allora, fatti più o meno importanti, che avvennero ma che rivivendoli oggi mi fanno sorridere, creando emozioni nuove, pensando che tutto fa parte del passato e che oggi posso trasmetterlo ad altre persone.
Tutto questo fu un lungo periodo formativo che seppe creare lentamente ma decisamente l’io che sono oggi. Tutto ha contribuito, le cose attorno a me, le voci di persone, che hanno influito anche se molte volte indirettamente, il luogo in cui vissi e tutta l’ingenuità e sincerità di gente semplice che era nel loro intimo buona e rispettosa verso coloro che erano loro accanto.
Allora si aveva bisogno di poco. I tempi erano duri, le risorse finanziarie limitate. Per vivere allora era necessario ben poco, come quel piccolo campicello famigliare, le poche galline nel pollaio capaci di dar uova, il maiale, comperato piccino al mercato, e forse tenuto a mezze con il vicino di casa, che lo cresceva nel suo recinto con gli avanzi della latteria e le zucche coltivate nel campicello.
Soprattutto ora, con questi miei ricordi, voglio dire grazie a due persone per avermi insegnato durante la mia gioventù, tutto quello che un uomo onesto deve conoscere per poter vivere a testa alto in questo mondo. Parlo della necessità di possedere l’umiltà nel nostro animo, l’essere capaci di dare un aiuto al bisognoso e di non essere timidi nell’amore verso il nostro prossimo.
Ho imparato tutto questo, passo a passo, dagli insegnamenti di mia madre e da mia nonna Gigia, durante quegli anni duri di privazioni, che hanno inculcato in noi insegnamenti che certamente la vita odierna non può dare, poiché i giovani d’oggi si aspettano che il tutto venga dato a loro sopra un piatto d’argento, si aspettano una vita facile, lussuriosa, e fannullona.
Forse mi troverete un po’ duro verso la gioventù odierna, ma l’esperienza di una vita intera mi ha insegnato che nulla si ottiene nelle mollezze del vivere. Colui che vuole raggiungere un traguardo, deve essere combattivo, altrimenti a mezza via, sarà ormai un fallito.
Scusatemi questa mia nuova intercalazione di pensiero, quindi è tempo ora di ritornare alle mie storie.
~*~
Sto ricordando ora quei giorni precedenti la seconda guerra mondiale. Quelli furono i giorni migliori nella mia vita, fino dal momento più remoto che la mia memoria può giungere, sin da quando sgambettai i miei primi passi, ed incuriosito mi guardavo attorno per vedere cosa la vita mi avrebbe riservato.
Realizzo che devo muovere indietro l'orologio del tempo, così che possa scrutare meglio dentro quelle prime memorie ed esperienze della mia vita, anche se a volte possono essere nebulose, ma pur sempre così ricche di amore e di valore sentimentale. Mi piace rivedermi nella vita passata e vorrei essere giovane nuovamente capace di poter rivivere nuovamente gli anni della mia infanzia, durante il periodo delle vacanze estive, che io e mia madre Antonia trascorrevamo nella casetta di Nonna Gigia in Tolmezzo.
Ricordo con rimpianto e nostalgia quei luoghi, ora spersi nei sogni del mio passato.
Nonna Gigia da poco era venuta ad abitare in quel luogo poiché la sua casa precedente fu distrutta in uno dei periodici terremoti che colpiscono quei territori Carnici-Friulani, e in quella occasione le distruzioni nel paese furono enormi.
Questo luogo dove mia Nonna viveva in quei giorni era grazioso. Viveva assieme a lei mio Zio Ferruccio, che frequentava ancora le scuole per divenire un maestro. Sergio, l'altro suo nipote viveva pure con Nonna Gigia, mentre sua madre Dirce lavorava all'Ospedale di Udine come infermeria e allo stesso tempo studiava da ostetrica.
L'abitazione dove Nonna Gigia viveva era separata dagli altri appartamenti raggruppati in uno stabile a tre piani, ma unito od esso ad angolo retto. Opposto agli appartamenti era la casa padronale di Siore Gigie.
L'appartamento di Nonna Gigia era indisturbato dagli altri inquilini e si affacciava direttamente su un largo cortile, che offriva sul fronte la vista del rustico comprendente le stalle capaci di tenere alle mangiatoie una ventina di buone vacche da latte. Un po' discosta da quella era la stalla con un paio di cavalli pesanti usati nei lavori agricoli. Sopra le stalle vi era un immenso fienile capace di fornire abbastanza foraggio per tutti gli animali durante l'intero anno.
Il cortile era quasi totalmente coperto a pergola e sosteneva grosse viti che si ramificavano ovunque e capaci di produrre enormi grappoli di dolce moscato. Al centro del cortile si ergeva un gigantesco gelso centenario e alla stagione produceva larghe more di un colore latteo. Quell'albero divenne durante il tempo in cui si era ragazzi, e col buon consenso di Siore Gigie, la padrona del luogo, il paradiso di noi ragazzi. Nel periodo di lunghi anni i freschi rami furono intrecciati ed ora erano grossi e forti formando all'intorno un robusto anello. Noi monelli si aveva creato lassù il nostro luogo preferito di giochi. Con molte casse vuote di legno, donataci dai magazzini alimentari della Cooperativa Carnica, si aveva costruito una conveniente piattaforma sopra i rami dell’albero gigantesco, il quale divenne il nostro punto di riunione favorito.
Il perimetro della proprietà di siore Gigie era delimitato con un alto recinto e al termine del podere esisteva uno spiazzo immenso che si allineava lungo la scarpata della ferrovia. Ad intervalli di tempo regolari passava quel curioso trenino che ben ricordava i film western Americani con la vecchia locomotive a vapore che trainava lentamente alcune carrozze, aperte alla loro estremità per dar accesso ai passeggeri diretti a Villa Santina. Nulla di quella ferrovia era mutata sin dal giorno che fu installata al principio del 20simo secolo. Le vecchie stazioni erano immutate, e così pure lo erano i segnali con bandierine rosse e verdi. Le stazioni presentavano antiche piattaforme per i passeggeri, sebbene ora qualche cosa era diverso dai giorni passati.
Erano i viaggiatori che non più vestivano come un secolo addietro.
La proprietà di Siore Gigie consisteva di un paio di acri di terra coltivati in un largo frutteto con fichi, meli, peri, viti, gelsi per i bachi di seta, e vi erano pure un paio di noci giganteschi. Il terreno era solcato da piccoli canali di irrigazione con acque correnti, che all'entrata del podere forniva l'acqua a capaci vasche di cemento che venivano usate nel risciacquare i bucati. Quelle stesse acque poi si dividevano in piccoli rigoli che attraversavano il luogo nell'irrigazione degli alberi da frutta o per le verdure che venivano coltivate sia per la casa come pure per essere vendute nel negozio di frutta e verdure in paese e che pure apparteneva a Siore Gigie.
A parte me e Sergio, in quel luogo vivevano altri due ragazzi. Gigetto era il più anziano del gruppo ed era il nipote di Siore Gigie, la proprietaria di tutto quel ben di Dio. Poi c'era Giacomino e la sua famiglia che affittava uno degli appartamenti.
Noi ragazzi avevamo eletto Gigetto, comandante del nostro clan di furfanti perché era il più anziano, e noi tutti eravamo pronti a compiere le imprese più ardite.
Noi quattro costituivamo un solido gruppo, e prendendo spunto dalle avventure lette nei romanzi del Salgari, avevamo spade di legno, fatte da noi stessi. Nostri usuali nemici era il gruppo dei fratelli della Zoccola, una famiglia che viveva nella proprietà che confinava con quella di Siore Gigie, ma la loro proprietà era alquanto malmessa.
Poiché Gigetto era la perla degli occhi di sua nonna avevamo ottenuto il permesso di giocare entro la proprietà con la promessa di non creare danni. Mondo, il fattore, che era responsabile verso Siore Gigie di tutto, ci aveva preso sotto la sua tutela. Era un gran buon uomo e spesso ci invitava ad andare con lui, quando si recava a lavorare nei campi vicini, col suo carro agricolo trainato dai cavalli. In cambio dell'aiuto di piccoli lavori ci ricompensava generosamente con una larga scodella di un minestrone saporito all’ora della colazione. Dopo di che, si era liberi di scorrazzare nei campi adiacenti. Si rimaneva con lui sino a sera, fintanto che Mondo aveva completato i suoi lavori nei campi e questo ci rendeva felici.
Come dissi, l'abitazione di Nonna Gigia era modesta, ma per noi era come fosse una reggia, perché ci sentivamo felici. Si viveva in una casa, piena di armonia, amore e dove lo scambio di cose sentimentali ci donava piacere. Nonna Gigia fu sempre la nostra guida, insegnandoci piaceri e doveri. Cercava di essere severa con noi, ma allo stesso tempo era pure molto dolce, poiché ci voleva bene, e usava quel tanto di severità necessaria alla formazione delle nostre vite future.
Oggi, ricordando quei giorni, sento come quella dimora era il centro dell'universo. Ritornando indietro col pensiero, sto rivivendo le stesse gioie provate allora e tutto scorre come fosse la continuazione di quei giorni lontani.
Ricordo molte cose, cose semplici che si ripetevano giorno dopo giorno, e che io e Sergio spartivamo. Sergio, ed io si aveva la stessa età, si era ancora molto giovani, e non si aveva iniziato ad andare a scuola. Sergio era un ragazzo dotato di grande intelligenza, e con l'aiuto di zio Ferruccio sapeva ormai leggere e scrivere. Così io mi sentivo relegato in un angolo come l'asinello di famiglia e desideravo emulare le capacità di mio cugino. Zio Ferruccio, divenne il nostro istruttore e guardiano, ma agiva con noi come fosse il nostro fratello maggiore. Infatti solo tredici anni di età ci separavano. Il tempo che passavamo assieme a Zio Ferruccio era sempre prezioso e piacevole. Ci portava in luoghi diversi e ci insegnava tutte quelle cose utili che un ragazzo doveva imparare. Di buon mattino si camminava o meglio si correva su quella rapida salita che conduceva al forte della Piccotta, luogo di vedetta e difesa della Tolmezzo antica, che venne costruita a difesa dell'invasione Ottomana, durante il 15simo secolo. Seduti sui bastioni della torre, Zio Ferruccio ci narrava la storia di quei tempi, dei Nobili Veneziani, che in quel periodo storico dominavano la valle, e con valore combatterono contro i Turchi invasori che volevano occupare la regione.
Il forte si trovava in una posizione strategica ed elevata, situato alcune centinaia di metri sovrastante Tolmezzo, e da lì era possibile dominare tutta la valle sottostante e vedere quando il nemico era ancora lontano e aver tempo di dare l'allarme alle difese della cittadina che strategicamente si trovavano all’entrata delle valli adiacenti.
Ricordo come in quei giorni ci arrampicavamo su quel ripido sentiero, scavato nel tempo dal continuo scalpiccio umano sulla scoscesa facciata del colle, e che zizzagava attraverso una magnifica foresta di abeti centenari, così fitta che i raggi del sole non potevano penetrare alla base degli alberi.
Ai margini della foresta, l'alta vegetazione diradava. Qui crescevano in abbondanza larghi pruni di nocciole che in autunno abbondavano di frutti sopra quei lunghi e diritti arbusti.
Una volta raggiunto il forte, potevamo riposarsi dopo la faticosa salita. Dall'alto dei bastioni si poteva ammirare il magnifico panorama della sottostante valle Tolmezzina formata dalla congiunzione dei suoi due fiumi, il But ed il Tagliamento.
Ricordo che all'interno dei muri della torre, vi erano diverse feritoie che si aprivano nella muraglia del forte. Zio Ferruccio ci spiegò che in quei tempi passati servivano a piazzare le bombarde a difesa contro gli eventuali assalitori.
Nei caldi pomeriggi d'estate Zio Ferruccio ci portava ad uno dei due fiumi, dove le acque che discendevano a valle erano sempre impetuose, frangendosi tra larghi sassi e rocce. Il letto del fiume era ampio sicché le acque scorrevano intrecciandosi e formando diversi rami d'acque correnti. Nel discendere era un continuo intrecciarsi dei rivoli che si congiungevano e si spartivano continuamente, pur sempre mantenendo un rivolo maggiore con abbondanza d'acque che indicava il corso principale del fiume.
Fu lì[CG1] , in quelle acque fredde e veloci che arrancavano verso valle, che Zio Ferruccio ci insegnò a nuotare. Era sempre all'erta e stava vicino a noi, e se io o Sergio si era in difficoltà, lo zio ci raggiungeva e sorreggendoci sulle sue spalle possenti, ci conduceva in acque più calme.
All'inizio dell'autunno, lo zio ci conduceva nella direzione opposta e ci inerpicavamo nei boschi che circondano la valle di Verzegnis dove regnava una foresta di castagni e ai suoi piedi potevamo raccogliere i frutti caduti. Se le castagne erano ancora racchiuse nei loro ricci spinosi, liberavamo i dolci frutti dagli involucri, prima di riporle nelle nostre sacche, poi a sera le castagne venivano arrostite sopra le braci tra lo scoppiettio del fuoco.
A volte, in quei boschi di Verzegnis, con un po’ di fortuna, si trovava pure qualche porcino che aumentava così il nostro bottino da portare a casa.
Abbiamo sempre goduto di quelle camminate tra i boschi e all'aria fresca e qualche anno più tardi, Sergio ed io, un po` più grandicelli, ci avventurammo da soli tra quei boschi Carnici, e spingevamo le nostre esplorazioni sempre più lontano, ampliando i confini del nostro piccolo mondo. In quel modo, in quell’atmosfera nacque in noi la passione di scorrazzare e di sentirci liberi che ci accompagnò negli anni a venire.
In quegli anni le nostre serate erano davvero gioiose. Zio Ferruccio sapeva trarre dal suo mandolino suoni melodiosi che veramente ci rallegravano. Ricordo come intonava bene le ultime melodie alla moda, o quelle canzoni popolari che tutti cantavano; questo era un passatempo abbastanza consueto e Sergio lo seguiva nel ritmo della canzone cantandone le parole. Sergio, come dissi prima, era un ragazzo precoce ed intelligente ed in più sin da quei giorni poteva declamare con un innato talento teatrale. Crescendo ebbe modo di perfezionare meglio la sua passione sui palchi teatrali degli oratori ecclesiastici. Ma in quei giorni quando era ancora nella tenera età di cinque anni era un vero piacere vederlo, in piedi sopra il tavolo della cucina, mimare il nostro amato Mussolini nei suoi discorsi fatidici al popolo Italiano dal balcone di Piazza Venezia. Il suo pezzo più forte nella sua arte oratoria era il celebre discorso del Duce nell'occasione della dichiarazione di guerra con l'Abissinia. Sergio dava una rappresentazione realistica di Mussolini copiandone il tono di voce ed il gesticolare delle mani che il Duce sfoggiava arrogantemente in quell'anno, al culmine del suo successo politico. Sergio era certamente dotato in tutte le arti, sia nella sua capacità come attore, sia per la sua passione poetica. Infatti alcuni anni dopo, mentre entrambi si era ancora alle scuole elementari, mi invitava a gareggiare con lui nello scrivere le nostre poesie che poi venivano giudicate da Nonna Gigia e da mia madre. Naturalmente non occorre che dica qui chi era il solito vincitore in quelle competizioni. Francamente non mi sono mai particolarmente distinto in rime poetiche.
Scrivendo queste note scaturiscano molti altri ricordi di quel periodo giovanile e ricordo con piacere quei giorni lontani ma pur sempre felici. Posso dire che Sergio ed io eravamo molto affiatati e sempre uniti nello spartire giochi e passioni. La competizione tra noi era sempre grande, anche se Sergio era sempre più dotato di me in qualsiasi gioco, pensiero azione. Sappiate però che dovete vedere quei due di noi come uno unico, sia nel pensiero così pure nelle azione. Eravamo davvero indivisibili e lo siamo sempre stati, in tempi futuri, nonostante le circostanze della vita ci abbiano condotto lungo separate vie ed in luoghi diversi.
~*~
Fine parte tre
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